in copertina, foto CC BY-SA 4.0 Darafsh
La protesta delle donne iraniane viene raccontata dai media occidentali nel modo sbagliato, e rischia di essere strumentalizzata per mascherare l’islamofobia
Sono più di un centinaio le donne iraniane che martedì scorso si sono organizzate in un sit-in di fronte all’ambasciata dell’Iran in via Nomentana, a Roma. I cartelli urlano “Donna, vita, libertà”, slogan che in questi dieci giorni continui di protesta in Iran hanno attraversato le piazze di circa 80 città del paese. Si organizzano tutte per la morte di Mahsa Amini, uccisa dalla Gash-e Ershad, la polizia morale islamica, per aver indossato scorrettamente l’hijab in un luogo pubblico.
La mobilitazione internazionale, dal basso, è arrivata praticamente subito. Nonostante il blocco totale delle linee internet in Iran, video e foto sono riusciti a uscire dal Paese, per raggiungere i media di tutto il mondo. Il KJK (Comunità delle donne del Kurdistan) ha pubblicato, qualche giorno fa, una dichiarazione in cui condanna la polizia morale iraniana e chiede “una lotta organizzata contro il femminicidio e il sistema di governo patriarcale.” Secondo l’organizzazione Iran Human Rights sono 76 i manifestanti uccisi in questi giorni, e superano il migliaio le persone incarcerate.
L’approccio del Movimento di liberazione delle donne curde ha oggi, come sempre, un respiro internazionale, e chiama alla mobilitazione mondiale per combattere “la mentalità patriarcale che continua a uccidere le donne ovunque.” L’obiettivo è l’abbattimento dello stato patriarcale e oppressore sotto il controllo dell’ultra-conservatore Ebrahim Raisi e l’opposizione all’ayatollah Khamenei, definito “vergogna della nazione.” Samarì, una ragazza dell’Associazione Giovani Iraniani in Italia, ha parlato a Radio Onda d’Urto sottolineando come Mahsa Amini non sia la prima ragazza ad essere uccisa e “nel caso in cui questo regime continuasse a stare al potere, non sarà nemmeno l’ultima.” È allo stato oppressore che le donne curdo-iraniane si stanno ribellando in questo momento.
Pochi giorni dopo i fatti che hanno coinvolto Masha, è arrivata la notizia della morte di Hadith Najafi: la “ragazza della coda,” come l’hanno chiamata diversi giornali internazionali, assumendola a simbolo della rivolta. Una ragazza ventenne che si lega i capelli, senza velo, in una piazza di manifestanti: si è scoperto in seguito che lei e Najafi non erano la stessa persona, ma è rimasta la forza simbolica di quel gesto.
La risposta delle donne di tutto il mondo passa attraverso i social: si tagliano i capelli davanti alla webcam e pubblicano i video, bruciano il proprio hijab in piazza, manifestano senza velo. Il rischio, però, per le donne non musulmane, è sempre lo stesso: lottare per i valori occidentali prima ancora di lottare per la liberazione delle donne. La facilità con cui vengono condivise immagini di donne curde senza velo, che protestano nelle piazze di Alborz, Esfahan o Ilam, è dettata dal fatto che queste ci assomigliano. È anche perché i capelli della “ragazza con la coda” sono biondi. È perché stanno bruciando nelle piazze il velo, visto da secoli – con malcelata islamofobia – come l’oggetto della repressione della libertà di mostrarsi.
La facilità con cui vengono condivise immagini di donne curde senza velo, che protestano nelle piazze di Alborz, Esfahan o Ilam, è dettata dal fatto che queste ci assomigliano
Sono ormai decenni che le femministe musulmane si mobilitano per scardinare l’ideologia che non riesce (o non vuole) scindere il binomio velo-oppressione. Sono passati già sette anni anni da quando Hanna Yusuf, studentessa londinese, ha rilasciato una discussa video-intervista, per il Guardian, in cui sostiene che non ci sia “niente che sia liberatorio in sé nel coprirsi come non c’è nulla che sia liberatorio in sé nello scoprirsi. La libertà sta nella scelta. Dare per scontato che tutte le donne velate siano oppresse sminuisce le scelte di coloro che vogliono indossare il velo.” E mentre sui social e nei media occidentali imperversa la retorica della “liberazione dal velo” piuttosto che quella della “liberazione dall’obbligo del velo,” il rischio è quello di alimentare inclinazioni islamofobiche.
Oggi, in Italia, la corrente di pensiero femminista dominante fatica ancora a riconoscere in La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci un vero e proprio “manifesto dell’islamofobia,” come lo ha definito l’islamologo Oliver Roy. Fallaci è stata una ferrea sostenitrice della libera scelta di abortire; è stata una delle prime inviate di guerra donna degli anni Sessanta; ha scritto di donne e lottato al fianco di queste. Ma ha abbracciato le lotte di quelle che assomigliavano a lei, negando la possibilità di essere donne velate e donne libere allo stesso tempo. In Italia, come in tutto il mondo occidentale, sosteniamo un ideale di libertà ben preciso, e abbracciamo le lotte che si avvicinano il più possibile a questo modello.
È per questo che c’è un grande silenzio per le proteste che stanno avvenendo in India in questi giorni. Dal cinque febbraio, nello stato del Karnataka, diversi istituti scolastici hanno vietato l’utilizzo dell’hijab per le ragazze musulmane all’interno delle scuole pubbliche. La motivazione arriva dal governo nazionalista hindu guidato dal partito BJP, che ha dichiarato che “indumenti che interferiscono con l’uguaglianza, l’integrità e la legge non dovrebbero essere indossati.” Qualche giorno fa, un funzionario del governo nazionalista, durante un’udienza alla Corte Suprema, ha giustificato la scelta di bandire l’uso del velo nelle scuole con i recenti fatti avvenuti in Iran, a dimostrazione del fatto che “per l’Islam il velo non è essenziale e quindi per difendere la laicità non va lasciato indossare sopra l’uniforme scolastica.” La lotta che stanno portando avanti le donne, affiancate per la prima volta anche da diversi uomini, in Iran, non può e non deve essere strumentalizzata per silenziare il diritto alla libertà di espressione religiosa.
Come nel caso dell’India, anche in Europa la macchina islamofoba è mascherata da lotta per i diritti delle donne. Basti pensare al “Preferiamo diritti e libertà (al velo islamico)” di Matteo Salvini, in commento a un manifesto della Conferenza sul futuro dell’Europa della Commissione europea che ritraeva una donna con l’hijab; o al “multeremo chi indossa il velo” della campagna elettorale di Marine Le Pen per le ultime politiche in Francia.
Ne Il femminismo nell’Islam, Margot Badran, una delle voci più autorevoli del femminismo musulmano, spiega chiaramente come l’origine esclusivamente occidentale del femminismo sia un errore storico, che non fa altro che contribuire all’idea di un mondo musulmano arretrato. Quella stessa arretratezza di cui parla Roula Seghaier, attivista per i diritti delle donne in Libano, nel documentario Le donne per la primavera araba: “L’assunto per cui una donna araba deve essere salvata dall’uomo arabo selvaggio è un’idea coloniale […] Quando etichettiamo qualcosa come arretrato, perdiamo delle possibilità di progresso per le donne.”
Ad oggi, però, non si può più dire che tale retorica appartenga unicamente alle destre nazionaliste. La solidarietà del mondo occidentale deve quindi passare attraverso la lotta per la tutela del diritto all’autodeterminazione. Perché non ci sia mai più un modo giusto di indossare l’hijab che giustifichi la morte di una ragazza, ma che tutte siano libere di poterlo scegliere.
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