Avevamo basse aspettative, ma
Il voto ha premiato chiaramente l’unico grosso partito che è rimasto fuori dal governo Draghi e dalle “larghe intese” – ma la destra non avrà la maggioranza dei due terzi del Parlamento
Il voto ha premiato chiaramente l’unico grosso partito che è rimasto fuori dal governo Draghi e dalle “larghe intese” – ma la destra non avrà la maggioranza dei due terzi del Parlamento
Confermando i sondaggi, la coalizione di destra ha vinto nettamente le elezioni, con una percentuale che supera il 44% sia alla Camera sia al Senato — percentuale che garantirà la maggioranza assoluta in entrambe le camere, ma non quella dei due terzi indispensabile per cambiare la Costituzione senza passare da un referendum. Fratelli d’Italia è il primo partito, con oltre il 26% dei voti, mettendo Giorgia Meloni sulla strada per diventare la prima donna presidente del Consiglio e — come hanno titolato diversi media internazionali — la premier più a destra della storia dell’Italia repubblicana, a cent’anni esatti dalla marcia su Roma.
Non è un risultato così difficile da interpretare: il voto ha premiato chiaramente l’unico grosso partito che è rimasto fuori dal governo Draghi e dalla logica delle larghe intese, permettendogli di sestuplicare i consensi ricevuti appena quattro anni fa. Duramente penalizzati, invece, gli altri due membri della coalizione (lasciamo stare i centristi di Lupi, Toti e Brugnaro, fermi sotto l’1%): Forza Italia e Lega, dal 14% e 17,4% ottenuti rispettivamente nel 2018, crollano attorno all’8%. Per il partito di Salvini, superato da FdI anche nelle regioni del Nord, è una sconfitta storica, che potrebbe mettere il segretario di fronte alla tanto pronosticata “resa dei conti” sulla leadership. La debolezza dei due alleati, passata l’euforia della vittoria, potrebbe essere un problema anche per Meloni: ieri Berlusconi è stato sentito mentre confessava a un gruppo di sostenitori di avere “un po’ paura” di lei.
La vittoria della destra non va nemmeno sopravvalutata: le dinamiche del Rosatellum hanno premiato l’unità della coalizione, ma la maggioranza dei votanti — sempre in calo, dato il record storico dell’astensione — sta con il centrosinistra, con il M5S e con il “terzo polo” Italia Viva-Azione.
Resta comunque una sconfitta, soprattutto per il Partito democratico, che si ferma attorno al 19%, una percentuale troppo vicina al 18% di Renzi per non costare la testa al segretario. Letta dovrebbe parlare oggi alle 11, e le sue dimissioni sono lo scenario più probabile. All’interno della coalizione, il risultato peggiore è della neonata formazione di Di Maio, Impegno Civico, che non raggiunge l’1%: sconfitto nel collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta dal candidato pentastellato — l’ex ministro Sergio Costa — l’attuale ministro degli Esteri dovrebbe restare fuori dal Parlamento. Stesso destino per Emma Bonino, battuta dalla candidata di destra nel collegio uninominale del centro storico di Roma — lo stesso in cui si è candidato anche Calenda.
Il Movimento 5 Stelle ha dimezzato i voti rispetto al 2018, ma dati i sondaggi che qualche mese fa ne pronosticavano la sparizione, o quasi, Giuseppe Conte ha buon gioco a parlare di una “rimonta significativa.” Il “Terzo polo,” invece, non ha vinto in nessun collegio uninominale e si ferma attorno al 7% — una percentuale di cui comunque la ministra Elena Bonetti (Iv) si dice soddisfatta.
E le altre liste? Italexit di Paragone, che alcune proiezioni all’inizio dello spoglio accreditavano al 3%, si ferma invece al 2 e resta fuori dal Parlamento. Un risultato comunque migliore di quello dell’Unione popolare guidata da De Magistris, che non raggiunge nemmeno il 2%: i circa 300 mila voti ottenuti dalla lista sono praticamente gli stessi ottenuti da Potere al Popolo nel 2018, confermando l’incapacità di costruire un soggetto politico credibile alla sinistra del Pd.
Aggiornamento: in tarda mattinata si sono susseguite le conferenze stampa di Salvini, Calenda, e Enrico Letta — i tre leader politici che, in misure diverse, si sono dovuti confrontare con una sconfitta. Matteo Salvini ha fatto un discorso soprattutto rivolto verso l’interno del partito, minimizzando l’impatto della perdita dei voti e rivendicando la presenza in tutto il paese, un messaggio rivolto senza dubbio alla parte del partito che crede di poter ricostruire il consenso ripartendo dal discorso delle autonomie. Salvini ha promesso che ci sarà un “confronto di provincia in provincia,” ufficialmente per avvicinare il governo al territorio — ma è esplicito che si tratti di un tentativo di tenere sotto controllo il partito. Secondo il segretario della Lega, il partito ha scontato il supporto al governo Draghi, che gli elettori hanno bocciato, premiando FdI — sempre all’opposizione — e M5S. Sul ruolo del governo Draghi è intervenuto anche Carlo Calenda, che si è chiesto come mai gli elettori si siano espressi così nettamente per la destra quando il consenso per il governo di Mario Draghi rimaneva così alto. Calenda ha lamentato il poco successo del proprio schieramento, promettendo di “aprire subito un cantiere” per una opposizione alternativa a quella di Pd e M5S.
Enrico Letta ha parlato per ultimo, ed è l’unico dei leader sconfitti a fare i conti con la sconfitta del proprio partito, seppure con i propri tempi: il segretario del Pd si è rifiutato di assumersi le responsabilità per aver fatto crollare il campo largo — che di fronte ai numeri di oggi aveva una possibilità di giocarsela ad armi pari con la destra — ma ha annunciato che non si candiderà al congresso del Partito democratico, che dovrebbe tenersi prima di marzo. Letta non si dimette però, e quindi avrà naturalmente un ruolo preponderante in questa fase di ricostruzione del Partito.
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In copertina, foto via Twitter