L’aborto e il disastro di Seveso

Nel 1976 in Italia l’interruzione di gravidanza non era ancora legale, ma viene eccezionalmente concesso l’aborto terapeutico nelle aree colpite dal disastro della diossina. Nonostante il rischio di malformazioni e di morte, le forze anti–abortiste continuano la loro battaglia contro il diritto di s

L’aborto e il disastro di Seveso

Nel 1976 in Italia l’interruzione di gravidanza non era ancora legale, ma viene eccezionalmente concesso l’aborto terapeutico nelle aree colpite dal disastro della diossina. Nonostante il rischio di malformazioni e di morte, le forze anti–abortiste continuano la loro battaglia contro il diritto di scegliere

Maria Chinni è una ragazza di 23 anni e da quando ne ha 18 è sposata con Canio Corbo, che ha un anno in più di lei. Entrambi sono originari del Sud: lei di Montebello Ionico, in provincia di Reggio Calabria, lui di Potenza. La coppia, con i figli Anna Maria di quattro anni e il piccolo Donato, che ne ha uno e mezzo, sono di ritorno da una vacanza: Anna Maria e Donato sono andati a trovare i nonni.

La coppia ha tanti progetti per il futuro: Maria è incinta da poche settimane, e lavora in una ditta di Lissone, Canio ha avuto qualche problemino di salute, ma si riprenderà in fretta e sarà più partecipe nell’aiutare la famiglia.  Nel settembre 1976, dopo la vacanza di dieci giorni in Calabria, entrambi tornano in Brianza, in un paese confinante con Desio: Muggiò. Maria attacca subito al lavoro, ma mentre si trova in fabbrica inizia a non sentirsi bene.

Sente una fitta lancinante al ventre e il giorno dopo, giovedì 2 settembre, decide di stare a casa. Canio inizia a preoccuparsi quando anche nella notte Maria è presa dai dolori. Canio e Maria volano al pronto soccorso più vicino, quello dell’ospedale di Desio, nel pomeriggio di venerdì. Maria sembra stare molto male, Canio è sempre più agitato.

Passa qualche ora e davanti al marito compare il dottore: gli dice che Maria è scomparsa, insieme al bambino che portava dentro di sé. Questa tragica morte diventa in breve tempo benzina versata su un fuoco che è già acceso da tempo. Dopo qualche giorno si diffonde la voce che Maria sia morta per colpa di un aborto clandestino.

Il direttore dell’ospedale di Desio precisa che dall’autopsia non risulta alcun danno al feto, prova che la donna non ha tentato l’interruzione di gravidanza. Lo conferma anche il prof. Lorenzo Alfieri, l’aiuto ostetrico ginecologico dell’ospedale. Rimane il fatto che la causa di morte non è del tutto chiarita: si parla in modo imprecisato di un’infezione senza specificarne la causa. La notizia finisce sulla stampa proprio nei giorni in cui a Desio si è deciso per “ammettere con riserva” le gestanti che fanno richiesta di abortire.

L’8 settembre, a Milano si tiene una riunione di vari collettivi femministi per decidere come reagire alla morte di Maria Chinni. Sono presenti anche i gruppi di Desio e Cesano Maderno, zone colpite dalla diossina. Nell’articolo di Lotta Continua, uscito il giorno successivo, si fa cenno a quella riunione e poi, nell’articolo dedicato alla vicenda, si definisce Alfieri “uno degli aguzzini dell’ospedale di Desio”.

Perché questo attacco ai medici dell’ospedale? Come mai l’argomento è l’aborto, se siamo nel 1976 e il referendum che lo liberalizzerà verrà votato solo nel ’78? E, soprattutto, cosa c’entra tutto questo con la diossina? Quando Maria Chinni muore, questo tema occupa già pagine su tutti i giornali, e divide, ancora una volta la popolazione della Brianza e dell’Italia intera. Per capirne il motivo bisogna tornare indietro di qualche settimana, al 29 luglio.

Quel giorno, in Parlamento si alzano le voci di Emma Bonino e Susanna Agnelli del Partito Radicale che chiedono al Governo di permettere alle donne in gravidanza dei paesi colpiti dalla diossina di abortire in strutture pubbliche. Evidentemente  questa proposta circola già almeno da qualche giorno perché una decisione netta viene presa appena il giorno successivo.

Il 30 luglio l’assessore regionale Rivolta torna a Seveso per una riunione con gli amministratori locali che si preannunciava già molto importante, nessuno però si immagina che sia così importante. Alla fine dell’incontro, Rivolta incontra i giornalisti e dice che “dal 2 agosto funzionerà presso le scuole medie di Seveso un consultorio familiare a cui potranno rivolgersi le donne residenti che desiderino essere aggiornate sui metodi contraccettivi.”

Per quanto riguarda le gestanti,” continua Rivolta, “le donne verranno esaminate presso la clinica Mangiagalli di Milano. In base ai risultati di questi esami ogni decisione verrà lasciata alla libera determinazione delle interessate. Per libera determinazione intendo anche la possibilità di interrompere la gravidanza in base ai risultati emersi e nel rispetto dei singoli problemi di coscienza”.

Nei primi giorni in cui il consultorio è attivo già iniziano a serpeggiare strane voci sulle donne che ci vanno. Pare davvero che la diossina danneggi le gravidanze. Poi l’8 agosto scatta di nuovo il panico: sui giornali c’è scritto che tre donne, dopo essersi recate in quei consultori, hanno avuto un aborto spontaneo. Allora è vero: il pericolo è reale. L’11 agosto il ministro della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio riconosce che per Seveso si può parlare di aborto terapeutico e il ministro della Sanità dell’allora governo Andreotti, Luciano Dal Falco, lascia la libertà di scelta alle donne.

Questa nuova possibilità, arrivata quasi improvvisamente in un’Italia che già da anni si divide su questo tema, mette in crisi le madri di Seveso, Cesano Maderno, Meda e Desio. Ora possono scegliere, ma sono davvero in grado di scegliere? Molte non credono di possedere gli strumenti per farlo. E intanto imperversa la polemica. È l’anno in cui il Pci è dato al 33%, ma sono anche gli anni in cui nasce e trova un certo sostegno tra i giovani Comunione e Liberazione. Il fondatore, don Luigi Giussani, è di Desio.

I gruppi femministi come il Movimento di liberazione della donna, il comitato romano liberalizzazione aborto e contraccezione, l’unione donne d’Italia e l’AIED (asspciazione italiana educazione demografica) spingono per una liberalizzazione dell’aborto, non solo terapeutico, sostenendo che l’iniziativa del governo sia troppo timida.

Anche in queste circostanze non mancano poi le proposte più strampalate: l’editorialista della Stampa Nicola de Feo, sotto lo pseudonimo di Nicola Adelfi, propone addirittura un aborto coattivo, cioè di obbligare tutte le donne della zona contaminata ad effettuare l’interruzione di gravidanza per evitare rischi.

È in questo clima che a Seveso si organizza l’ennesima assemblea per discutere del problema inquinamento da diossina in via De Gasperi. È l’inizio di agosto. Partecipano 800 persone, e da subito si capisce che l’argomento di cui si parlerà sarà l’aborto. Tra il pubblico infatti ci sono diversi militanti dei gruppi femministi e di comunione e liberazione. Ma c’è anche Laura Conti.

Ad un certo punto la consigliera regionale del Pci prende la parola e fa un discorso lucido ed equilibrato. Dice che la decisione finale non può che spettare alla donne, ma il rischio serio c’è e riguarda in primis la salute delle madri. “Nessuna donna può sapere se il proprio figlio nascerà malformato,” dice, “ma non è questo il problema di cui secondo me le donne dovrebbero tener conto. Non possiamo non considerare che la diossina si deposita proprio negli organi messi più a dura prova al momento della gravidanza e del parto: fegato e reni.”

L’intervento viene accolto da molti applausi e qualche fischio. Uscita dall’aula magna delle scuole medie Laura Conti viene fermata da un gruppo di persone che le chiede insistentemente quanti rischi ci sono di una grave conseguenza. Conti nelle sue memorie ricorderà così quel momento. “Avevo l’impressione di una folla presa dal panico e quel panico mi contagiava: abbagliata, stordita, confusa sulle prime non mi riusciva di capire niente. A poco a poco compresi che stavo assistendo ad un gioco al massacro, un gioco furibondo e crudele”.

Ancora una volta è interessante leggere qualche testimonianza del tempo. Il Corriere esce nei primi di settembre con un articolo a doppia intervista: a parlare sono una donna, rimasta anonima, che si è rivolta all’ospedale di Desio per interrompere la sua gravidanza, e Giuseppe Amico, consulente psichiatrico della struttura. La donna accusa il medico di aver fatto pressione per non farla abortire.

“Il dottore ha utilizzato dei mezzucci per convincermi a cambiare idea,” dice la donna, “ad esempio ha detto che i veri guai nella vita non sono avere un bambino malformato, ma un figlio delinquente o drogato”. Amico risponde così: “È vero che abbiamo toccato un simile argomento, ma con uno spirito completamente diverso; avevo avuto un colloquio con un padre preoccupato per il figlio drogato, abulico e che gli dava diversi grattacapi. La discussione si è trascinata anche in presenza della signora ma non è stato un argomento che ho portato per convincere la donna a non abortire”.

In quei giorni, infatti, nonostante la possibilità dell’aborto concessa dal governo, non sempre per le donne è semplice avere supporto e assistenza. Il dott. Amico diventa il bersaglio di critiche da più parti, proprio perché a Desio, dove lui è chiamato a valutare la salute mentale e l’autonomia decisionale delle donne intenzionate ad abortire, moltissime vengono respinte. Praticamente nell’ospedale brianzolo non si effettuano aborti.

Molte donne che si rivolgono al consultorio di Desio per diverse settimane non potranno abortire nell’ospedale della loro città ma dovranno andare a Milano. Il motivo è che, anche se il dott. Amico dà parere positivo (cosa che non fa quasi mai), il consiglio d’amministrazione non ha ancora deciso se dare la possibilità di effettuare questi interventi. Quindi in Brianza è tutto fermo.

Le critiche non arrivano solo dai gruppi femministi, che si trovano anche fuori dall’ospedale per contestare Amico e i suoi colleghi, ma anche dai medici dell’altro ospedale del territorio, la clinica Mangiagalli di Milano, dove invece le interruzioni volontarie di gravidanza iniziano a essere fatte. Con una non trascurabile mancanza di tatto i giornali ricamano su questa polemica, e fanno diversi titoli su quella che chiamano “la guerra degli aborti”.

È interessante a questo punto citare la posizione del prof. Giovanni Battista Candiani: è lui che alla clinica Mangiagalli ha la responsabilità di decidere se rendere disponibile la struttura. Candiani è un pezzo grosso della sanità lombarda: insegna ostetricia alla Statale di Milano ed è da sempre cattolico e pro-vita.

La vicenda che ha coinvolto Seveso e gli altri comuni della Brianza, però, gli fa cambiare idea. Racconta sulle pagine del Corriere il 18 agosto perchè alla fine ha deciso di accettare: “Come ginecologo, da anni sempre a contatto con le donne, posso dire che la gravidanza è un evento così personale e intimo che non possiamo capire, non possiamo intrometterci.”

Ad un certo punto, i prof. Candiani e Dambrosio che operano al Mangiagalli minacciano addirittura di dimettersi dai loro impegni sanitari per le zone colpite dalla nube. Per loro è inaccettabile che tutto il lavoro debba essere scaricato su Milano, quando sono le gestanti stesse a chiedere di essere ricoverate vicino a casa.

Dambrosio tuona contro i colleghi di Desio dalle pagine del Corriere “Cosa devo rispondere? Se io mando una donna a Desio ho paura che non mi accettino il ricovero”. Le femministe organizzano un sit-in all’ospedale brianzolo dopo aver saputo che ad una delle donne intenzionate ad abortire Amico, durante la sua valutazione psichiatrica, aveva fatto ascoltare il battito del feto. Durante il sit-in i gruppi femministi del Partito Radicale, Lotta Continua e Democrazia Proletaria appendono più di trenta striscioni informativi.

Il prof. Amico, nel tentativo di rispondere alle contestazioni si fa scappare la frase “io posso concedere l’aborto” e viene sommerso da critiche e insulti, tant’è che è costretto a lasciare l’ospedale dentro una macchina dei carabinieri. Quella reazione così violenta ad una frase che forse agli occhi del dottore non ha nulla di sbagliato è la dimostrazione che qualcosa sta cambiando. Il diritto di scegliere, rispondono le manifestanti, è sempre delle donne.

La situazione all’ospedale di Desio si sbloccherà soltanto il primo settembre. Quel giorno il consiglio di amministrazione dell’ospedale decide di accogliere la richiesta che fanno da settimane enti locali, colleghi e cittadini. Poche ore dopo, dentro quell’ospedale arriveranno Maria Chinni e suo marito Canio.

Ma, per comprendere cosa succede in questi giorni estremamente divisivi, non si può fare a meno di parlare delle ragioni e degli interventi di chi l’aborto non lo vuole affatto. La chiesa porta avanti una posizione complessa. Non si limita a ribadire l’importanza e l’inviolabilità della vita in tutti i casi, ma vuole dimostrare che concedere l’aborto terapeutico in seguito ai fatti di Seveso è ingiustificato.

La parola che si sente più spesso riecheggiare nel dibattito tra i cattolici è “eugenetica”. L’8 settembre 1976 il cardinale Giovanni Colombo nella sua omelia al Duomo di Milano si scaglia contro la politicizzazione che a suo dire sta danneggiando i diritti dei bambini non ancora nati. “Si è voluto inserire una campagna politicizzata allo scopo di togliere definitivamente anche in Italia ai bambini non ancora nati la protezione della legge,” dice.

“È bastato un dubbio,” continua il cardinale, “per eliminare insieme nella stessa morte la maggioranza di quelli che nascerebbero sani con la esigua percentuale di quelli che potrebbero nascere deformi; si sono voluti chiamare terapeutici gli aborti che in realtà sono eugenetici; pare che si stia attuando la politica del fatto compiuto, mettendo la nazione di fronte a un’interruzione della gravidanza quasi a sola discrezione della madre che renderebbe inutile ormai l’approvazione di una legge da parte delle camere parlamentari.”

In quei giorni il cardinal Colombo invita le famiglie cattoliche ad adottare i figli nati dalle donne dei paesi colpiti anche se deformi, per evitare che si ricorra all’aborto. Un appello rilanciato anche da Comunione e Liberazione.

Come abbiamo visto, in questo momento non è vero che la decisione di abortire è a discrezione unicamente della madre, tanto che, come avviene all’ospedale di Desio, la maggior parte degli interventi viene bloccata dal parere sfavorevole dello psichiatra.  A questo proposito però è curioso notare delle differenze anche all’interno del mondo cattolico.

Su il Cittadino di Monza, storico giornale locale della Brianza, appare in quegli stessi giorni di settembre un comunicato firmato dall’ufficio decanale di assistenza di Seveso, che conclude con un messaggio  per alcuni versi convergente con quello del femminismo moderno, arrivando a queste posizioni per vie del tutto diverse. L’ufficio decanale di assistenza è un centro di coordinamento degli aiuti per la popolazione colpita dalla diossina gestito dalle parrocchie.

Il comunicato, dopo aver espresso parere contrario all’aborto per motivi etici, dice di non essere in linea con il documento approvato dalla Regione che vincola la scelta di abortire al parere favorevole di uno psichiatra. “È intollerabile,” conclude il comunicato “che le donne siano considerate incapaci di affrontare i problemi generati dalla diossina e sospettate di possibile squilibrio mentale. In nome di una presunta necessità sanitaria si tende a privare le donne di ogni identità, autonomia e libertà di giudizio”.

Approfondendo le ragioni di questo dibattito viene da chiedersi se la tesi di un aborto eugenetico ha un qualche fondamento. Cioè, è vero, come dice la chiesa, che le donne dei paesi colpiti sono state terrorizzate dalla propaganda del partito radicale e delle formazioni di estrema sinistra sui rischi di malformazioni?

Come abbiamo visto, il rischio di malformazioni, anche se questo è stato possibile verificarlo solo in seguito, è aumentato di almeno dieci volte dopo l’incidente dell’ICMESA. Da quando il governo e la Regione danno il consenso di praticare aborti nelle aree colpite dalla nube, vengono effettuate 37 interruzioni volontarie di gravidanza. Di queste solo due vengono fatte all’ospedale di Desio. Nessuno dei feti risulta essere malformato.

Bisogna dire però anche un’altra cosa.  Innanzitutto le donne che decidono di abortire in quei giorni sono molte di più. Alcune stime parlano addirittura di ottanta interruzioni di gravidanza, una cifra che viene anche dal conteggio delle donne italiane incinte che da quella zona si spostano all’estero: non tutti gli interventi avvengono in Italia. Inoltre, non si può far finta di ignorare il problema degli aborti clandestini.

Le donne che affrontano il difficile percorso di scelta sono quindi più del doppio di quanto riportato dai dati ufficiali. In più, va ricordato che l’effetto della diossina è a lungo termine, quindi non bisogna stupirsi se le gravidanze portate avanti nell’estate e autunno del 1976 siano meno soggette al problema malformazioni.

COme è ovvio, a sentirsi ancora più smarrite nel clima infuocato di quei giorni sono le giovani madri. Sia nel libro di Diego Colombo che in “Seveso la tragedia della diossina”, uscito nel 1977 e curato dai giornalisti Mario Galimberti, Giacomo Citterio, Luigi Losa e Franco Cantù, vengono riportate alcune testimonianze che dicono molto di cosa queste persone provano.

Nel libro dei quattro giornalisti brianzoli si riportano le parole di un’operaia dell’EN.COL, una fabbrica che dista neanche cento metri dall’ICMESA e quindi è in zona A “Io il bambino l’ho cercato, l’ho voluto” dice questa madre “ero di ottanta giorni quando è scoppiata la nube, poi ho lavorato in fabbrica ancora una settimana in mezzo alla diossina. Troppe però erano le cose che si dicevano e si scrivevano e non me la sono sentita di andare avanti”

Colombo raccoglie qualche testimonianza del 17 agosto, quando alcune donne vengono ricevute alla Mangiagalli per la valutazione psichiatrica che le concederà o meno di effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza.

“Sono andata alla visita, al consultorio di Seveso,” racconta una donna di trentasei anni che si è trasferita da poco dalla Calabria. “Lì mi hanno detto che non c’era pericolo, che il mio sangue era pulito, che non c’era veleno. Io lo so che ho il sangue pulito, che non porto malattie. Però il male al fegato ce l’ho, si è tutto gonfiato. L’altra notte non ho chiuso occhio per il male. Ma cosa ne sanno i preti di queste cose? Io sì che lo so, che ho provato. Io ho già avuto una figlia malformata, so cosa vuol dire”.

Le conseguenze di quel fatidico 10 luglio sono inimmaginabili, e soprattutto si rivelano molto più durature di quello che ci si aspettava inizialmente, nel bene e nel male. Non è un caso che molti di coloro che hanno vissuto quei giorni sostengono che il disastro dell’Icmesa non sia mai finito davvero.

TCDD è scritto da Daniele Rìgamonti. Voci di Elena D’Acunto e Daniele Rìgamonti. Regia di Stefano Colombo. Produzione Stefano Colombo e Federico Cuscunà


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In sottofondo: Comfortable Mystery 1, 2, 3, 4, CC BY 3.0 Kevin MacLeod (incompetech.com)

in copertina, foto di Yulia Opanasyuk