in copertina, elaborazione foto CC BY-NC-SA 3.0 IT presidenza del Consiglio dei ministri
Nonostante una solida maggioranza al Senato — e ignorando il fatto che il M5S non abbia mai detto di voler sfiduciare il governo — Mario Draghi prova ad alzare la posta in gioco
Ieri è stata una giornata molto faticosa, al termine della quale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni del presidente del Consiglio, Mario Draghi, imponendogli di verificare l’esistenza di un’eventuale maggioranza che lo sostenga in Parlamento. Già al mattino era risultato chiaro che i senatori del Movimento 5 Stelle non avrebbero partecipato alla questione di fiducia posta sul decreto Aiuti, distanziandosi così dalle altre forze di maggioranza. Il partito guidato da Giuseppe Conte è rimasto fuori dall’aula e il decreto è passato con 172 voti favorevoli, 39 contrari e nessun presente astenuto. Tra i 5 stelle non si sono segnalate defezioni.
Nonostante l’esistenza di una maggioranza molto solida — ieri al Senato anche senza il M5S hanno votato la fiducia più senatori di quanti ne avesse in maggioranza il governo Conte II — Draghi ha ritenuto di doversi comunque dimettere: in una nota ha dichiarato che “la maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo.” Intorno alle 18:30 a palazzo Chigi si è tenuto un breve Consiglio dei ministri — in cui a quanto pare Cingolani ha attaccato Orlando per aver fatto “il gioco di Conte” — dove ha annunciato le proprie dimissioni, e si è poi recato direttamente da Mattarella a presentarle.
Il Presidente della Repubblica ha deciso di non accogliere le dimissioni e ha rimandato Draghi in Parlamento, per verificare l’esistenza di una maggioranza in suo sostegno. Ciò significa che il governo continuerà a funzionare normalmente fino a prova contraria: lunedì e martedì ad esempio sarà in visita in Algeria per un vertice intergovernativo, che riguarderà soprattutto la crisi del gas e la ricerca di approvvigionamenti diversi dalle fonti russe. La verifica in Parlamento è prevista per mercoledì: un periodo di tempo molto lungo, durante il quale possono succedere molte cose.
Già, quali sono gli scenari possibili a questo punto? Il Movimento 5 Stelle non ha chiuso la porta alla possibilità di confermare il proprio sostegno all’esecutivo: la capogruppo al Senato Mariolina Castelleone ha già dichiarato che “c’è tutta la nostra disponibilità a dare la fiducia al governo in una eventuale verifica a meno che Draghi non dica che vuole smantellare il reddito di cittadinanza o demolire pezzo per pezzo ogni nostra singola misura, dal decreto dignità al cashback.” La scelta è in mano a Conte e al suo partito, che chiede di “rispettare un programma definito all’inizio: transizione ecologica e urgenza della questione sociale che adesso è esplosa.”
Il Pd in questi giorni ha accolto l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle più o meno come un reato di lesa maestà — e come lui la maggior parte della stampa nazionale. Dopo giorni di proclami sul fatto che lo scenario più probabile in caso di mancato sostegno al governo del M5S sarebbe stato il voto, però, ieri il partito ha moderato i toni: sembra che la soluzione preferita del Pd, come al solito, sarebbe continuare con lo status quo — Letta ha dichiarato che “abbiamo sempre pensato che questo governo ha la sua unicità e debba continuare con questo formato e in questo perimetro.” La capogruppo al Senato Simona Malpezzi sostiene che “mercoledì sarà il momento della stabilità.” Letta ha comunque dichiarato che “il voto non è mai un rischio.”
Nella destra, una posizione di conservazione simile a quella del Pd arriva soprattutto da Forza Italia, mentre la Lega è rimasta ambigua, non riuscendo a risolvere il proprio conflitto interno tra la linea di Matteo Salvini — che vorrebbe cogliere l’occasione per sfilarsi dall’esecutivo — e l’ala governista rappresentata dal ministro Giorgetti, secondo il quale nelle crisi di governo “ci sono sempre i tempi supplementari.” Giorgia Meloni, invece, preme perché si vada al voto anticipato, che probabilmente premierebbe FdI come primo partito tra gli elettori.
Anche all’estero ci si è accorti della crisi in corso — molti commentatori italiani e stranieri, senza pensarci troppo, hanno descritto la crisi in corso come una non meglio precisata “vittoria di Mosca.” Il commento più degno di nota in realtà è un post di trollaggio pubblicato su Telegram dal solito Dmitrij Medvedev, che ha fatto un parallelo con le dimissioni di Boris Johnson e si è chiesto “chi sarà il prossimo” leader di un paese Nato a dimettersi — visto che, com’è noto, i leader russi non hanno incombenze parlamentari da rispettare.