Yusupha Joof, bracciante trentacinquenne nato in Gambia è l’ennesimo morto di sfruttamento in Puglia. Secondo Yvan Sagnet dell’associazione No-Cap, perché qualcosa cambi serve una rivoluzione — anche — culturale
Si sa poco di Yusupha Joof, morto in un incendio scoppiato all’interno dell’insediamento dei braccianti a Torretta Antonacci all’alba del 27 giugno. Aveva 35 anni, era originario del Gambia, faceva il bracciante, è l’ennesima vittima dei roghi “che si potevano evitare.” Una storia comune a tanti altri compagni e compagne che dividevano con lui gli alloggi di fortuna — cartoni e lamiere — nei pressi di Rignano, San Severo, in Puglia. Joof dormiva quando è rimasto coinvolto nell’incendio dei due stabilimenti in cui risiedevano i braccianti ed è rimasto intrappolato all’interno di una delle due strutture mentre gli altri lavoratori hanno cercato di spegnere l’incendio e contattato i Vigili del fuoco. Secondo le prime ricostruzioni della polizia, il rogo avrebbe avuto origine accidentale — probabilmente per un corto circuito all’interno della cucina allestita nello stabile.
“Yusupha era uno stagionale come la maggior parte dei ragazzi che sono nel ghetto di Torretta Antonacci, dove le condizioni di vita sono estreme,” ha detto a the Submarine il presidente dell’associazione anti-caporalato NoCap, Yvan Sagnet, “le baracche sono fatte di plastica, lamiere e cartone: quando fa caldo non si respira, quando fa freddo è invivibile ed essendo un posto sprovvisto di servizi di base come acqua o elettricità, si utilizzano bombole del gas o candele che possono causare roghi con danni irreparabili.” Sagnet ha vissuto per un periodo a Torretta Antonacci e parla di una situazione immutata negli anni, eccezion fatta per il numero di abitanti del ghetto che sono diminuiti, ma sono stati spostati in condizioni altrettanto estreme. Recentemente No Cap ha effettuato un sopralluogo anche nelle campagne di Andria — un altro centro dello sfruttamento agricolo in Puglia: “pensavo di aver visto il peggio a Borgo Mezzanone, ma Andria è il peggio. Ho visto la vergogna umana. Un posto del genere non si può vedere: è un ghetto senza senso, perché il cesso è vicino alla cucina, i bambini vivono in condizioni pessime, c’è l’amianto ovunque”. Il ghetto di Andria è un capannone industriale, esiste da 15 anni, come in altre parti della Puglia, è stato sgomberato ma si è ricostituito “dall’altra parte della strada”, spiega Sagnet, “chi ci vive non ha alternative, stanno lì sei mesi soprattutto per la raccolta delle olive e poi si spostano verso Nardò o Foggia.”
Secondo le stime del IV Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL del giugno 2018, l’economia sommersa in agricoltura ammonta a circa 5 miliardi di euro, a profitto di aziende infiltrate dalla criminalità e dalla mafia – il caporalato; inoltre tra i 400 e i 430 mila lavoratori stranieri sono esposti al rischio di ingaggio irregolare, e di questi 130 mila sono in condizione di grave vulnerabilità. Il presidente della Lega Braccianti, Aboubakar Soumahoro ha chiesto a nome della famiglia e di tutta la comunità la verità sulle cause di questa tragedia. “Chiedo a certi corpi dello Stato e della politica, essendo stati indifferenti verso chi lotta a viso scoperto contro sfruttamento e assistenzialismo imprenditoriale sul corpo dei braccianti ‘neri,’ di risparmiarci lacrime di coccodrillo e dichiarazioni retoriche. Chiediamo, a nome dei familiari, che siano accertate le cause di questa ennesima tragedia ai danni dei braccianti dimenticati della filiera agroalimentare,” ha affermato Soumahoro.
Sulla questione si è espresso anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha parlato di una morte che “addolora e colpisce la comunità pugliese.” Emiliano aggiunge che “si deve superare definitivamente la prospettiva dei ghetti; per questo al governo centrale chiediamo di non lasciarci soli.” I sindacati Cgil Puglia e Flai Puglia, chiedono l’impiego dei fondi stanziati dal Pnrr per “mettere a punto i progetti per il superamento definitivo di questi ghetti, 100 milioni per tutta la provincia di Foggia e 28 milioni destinati proprio al Comune di San Severo per l’insediamento di Torretta Antonacci”.
Si tratta di un’altra soluzione tampone impraticabile? “Penso che in Italia ci sia bisogno di coraggio,” sottolinea Sagnet, “ci sono strumenti che la politica non ha il coraggio di utilizzare per non perdere consenso. Per esempio si potrebbe ripopolare dei piccoli borghi del centro-sud perché l’Italia è uno dei primi paesi in Europa che sta perdendo cittadini in quelle aree che avrebbero dei vantaggi da una ripopolazione, a livello di tasse e attività economiche. La soluzione abitativa delle tendopoli lascia il tempo che trova perché prima diventano baraccopoli e poi ghetti: non serve a nulla spendere soldi pubblici per dare soluzioni come quella dei container o di altri sistemi di accoglienza inadeguati.”
Sagnet sostiene che per risolvere i problemi nei ghetti dei braccianti si deve mettere il lavoro al centro delle politiche e occuparsi della questione dello sfruttamento, una condizione che non permette ai lavoratori di trovare situazioni abitative più solide. “Nessuno si può permettere di andare in affitto, quindi si va nei ghetti” prosegue Sagnet, “lo Stato deve fare una grande politica per riportare la legalità nel mondo del lavoro: le paghe sono misere. Se i lavoratori avessero una paga adeguata sarebbero come tutti gli altri. Ma come si fa quando si guadagna 15-20 euro al giorno? Lo sfruttamento e il salario povero è il male dei mali. Ci vuole una rivoluzione culturale.”
L’associazione NoCap ha aiutato oltre mille lavoratori a inserirsi nei circuiti di lavoro agricolo legale e garantisce i diritti a circa 5 mila lavoratori della filiera. Per costruire un sistema alternativo del lavoro agricolo, l’associazione ha coinvolto circa venti aziende capofila di altre 400 che hanno aderito al progetto e si occupa da anni di lottare contro la piaga del caporalato, ponendo al centro il tema del lavoro per costruire un sistema di filiera alternativa. Il progetto No-Cap è stato raccontato anche nella graphic-novel “La città di Cap”, che ripercorre la storia di Sanget, dallo sfruttamento nelle campagne di Lecce fino alla realizzazione della filiera etica. Il progetto parte da una critica al sistema capitalista che in campo agroalimentare ha concentrato tutto il potere nelle mani della Grande distribuzione organizzata (Gdo), che decide dei prezzi al ribasso e danneggia soprattutto ai lavoratori, come sottolineato anche da Sagnet: “NoCap analizza tutta la filiera, non solo un pezzo: si parte dal mercato e stiamo collaborando con il gruppo Megamark che poi ci porta a proporre questo progetto agli agricoltori tenendo conto di tutti i diritti sociali che vengono così garantiti. L’ultimo attore importante di questa filiera è il cittadino consumatore: se non facciamo una rivoluzione culturale sul consumo di prodotti frutto del caporalato, questa situazione proseguirà inconsapevolmente.”
foto via Facebook / Aboubakar Soumahoro
Lorenzo Valentino ha contribuito alla stesura di questo articolo
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