La crisi nera della pesca italiana
In tutta Italia i pescatori continuano uno sciopero frammentato contro l’aumento del prezzo del carburante, ma non solo: la pesca italiana è arrivata all’acme di una crisi strutturale. Il racconto di pescatori e commercianti, dal porto peschereccio di San Benedetto del Tronto
In tutta Italia i pescatori continuano uno sciopero frammentato contro l’aumento del prezzo del carburante, ma non solo: la pesca italiana è arrivata all’acme di una crisi strutturale. Il racconto di pescatori e commercianti, dal porto peschereccio di San Benedetto del Tronto
Le banchine del porto peschereccio di San Benedetto del Tronto — il più importante delle Marche — sono semi deserte. Sopra il porto si addensano nuvoloni grigi. Promettono pioggia. Le onde sono alte e il vento tira più forte del solito e i pochi che si incontrano hanno facce cupe. Di fronte al bar Europa, vicino alle barche ormeggiate, si è formato un capannello di avventori. Qualcuno arriva in motorino e discute con gli altri della situazione. Poi se ne va imprecando.
Da settimane i pescatori marchigiani, come in quasi tutta Italia, sono in sciopero. Solo per qualche altro giorno, però, perché poi si torna in mare.
Davanti al bar uno dei pescatori — un uomo con la faccia bruciata dal sole esclama: “La nafta costa troppo. Un’imbarcazione con quattro o cinque marinai ne usa 2mila litri al giorno. Con i prezzi di oggi arriviamo a spendere quasi 3mila euro. Il guadagno scompare.”
Fino a 70 centesimi al litro, i pescatori sono riusciti a gestire i prezzi al rialzo del carburante, ma il gasolio (la nafta, in gergo) ora arriva a costare anche 1,30 euro al litro: rispetto all’anno scorso, quando oscillava intorno ai 30-40 centesimi, il prezzo è triplicato.
Fra i pescatori che stanno discutendo sulla banchina c’è anche Giuseppe Pallesca, presidente della marineria locale. “Non abbiamo neanche i soldi per aggiustare barche e motori. Con quello che ci rimane dopo aver pagato il carburante, riusciamo solo a pagare i dipendenti e i contributi. Lo Stato non ci è venuto incontro.”
Ogni giorno di lavoro nella pesca ha costi certi, ma ricavi incerti. Quando si esce in mare, si devono pagare i marinai, il capitano e il gasolio, ma non si sa se le reti saranno riempite o no. L’incertezza è gestibile se i costi restano sotto controllo. Ma da tempo la pesca italiana è strutturalmente in crisi. E con il caro gasolio la situazione è precipitata.
È per questo che in tutta Italia i pescatori sono in agitazione da settimane. Con lo sciopero, mirano a ottenere dal governo un calmiere sul prezzo del carburante (anche se per ora non ci sono riusciti). Inoltre, immettendo meno pesce sul mercato, sperano che i prezzi aumentino in modo da compensare (almeno in parte) le spese più alte.
Finora il governo ha tamponato la situazione. A fine maggio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto salva-pesca, che ha stanziato 20 milioni di euro per il settore in crisi. Ora si discute di prorogare ulteriormente il credito d’imposta, di estendere alla pesca la CISOA (Cassa Integrazione Salariale Operai Agricoli) e di includere nel fermo bellico anche le marinerie mediterranee. Ma i sussidi e le misure d’emergenza non bastano. Nella pesca ci sono profondi problemi strutturali ed estesi a tutto il territorio nazionale.
Le mobilitazioni si sono diffuse lungo tutte le coste, dal Sud al Centro-Nord. A Porto Empedocle (Agrigento) il 9 giugno i pescatori sono tornati a protestare, nonostante avessero incontrato qualche giorno prima il presidente della Regione Sicilia Musumeci, che si era impegnato a sostenerli. A Monopoli (Bari) hanno ricevuto la solidarietà dei grossisti, che si sono uniti alla protesta con i loro tir. A San Benedetto del Tronto, a fine maggio, hanno bloccato le importazioni di pesce dalla Croazia. E a inizio giugno i pescatori che avevano raggiunto Roma per portare le loro proposte al governo sono stati caricati dalla polizia in piazza della Repubblica.
Secondo il rapporto 2020 degli Stati generali della pesca e dell’acquacoltura, i pescatori in Italia sono 125mila (di cui 25mila imbarcati e 100mila che operano a terra) e il Pil generato direttamente da pesca e acquacoltura è pari allo 0,05% del totale (dati Istat).
La flotta di pescherecci italiani — 11.700 battelli — non riesce a garantire l’autosufficienza dei consumi nazionali, che si basano sulle importazioni per circa l’80%.
Il settore della pesca in Italia non rappresenta la parte fondamentale della grande industria, ma ha un valore dal punto di vista sociale ed economico. Basti pensare che la filiera ittica nel suo complesso conta oltre 33mila imprese, un tassello fondamentale dell’economia del mare, che genera complessivamente il 3% del valore aggiunto nazionale, oltre il doppio rispetto al settore delle telecomunicazioni.
Il problema è coordinare una realtà tanto frammentata. Con un prezzo del gasolio così alto, uscire in mare è molto difficile per le barche più grandi, un po’ meno per quelle di medio segmento. E la frammentazione colpisce anche a livello territoriale: alcune marinerie hanno appoggiato fin da subito lo sciopero, altre continuano a essere esitanti.
I dissidi non sono mancati. All’inizio di giugno, i pescatori marchigiani avevano raggiunto un accordo ad Ancona con quelli del Nord Adriatico. Sarebbero usciti in mare per due giornate per testare la redditività dell’attività. Ma questa decisione ha scontentato i pescatori più agguerriti, soprattutto pugliesi e abruzzesi. Tanto che alcuni di loro, nella notte fra il 6 e il 7 giugno, hanno “invaso” il porto di San Benedetto per convincere i pescatori locali che lo sciopero non poteva interrompersi.
Le marinerie del Sud hanno avuto la meglio. E così giovedì 9 giugno a Civitanova Marche si sono riuniti un centinaio di pescatori di vari porti dell’Adriatico per discutere sul da farsi. Alla fine è stato raggiunto un accordo: si scenderà in mare due volte a settimana e dopo due settimane ci si incontrerà di nuovo per fare il punto della situazione.
Non tutti i pescatori, però, vivono le stesse difficoltà. Un armatore di San Benedetto del Tronto, che ci ha chiesto di rimanere anonimo, ammette: “Al Sud c’è molto malumore, ma è ovvio che i tempi del governo non sono brevi. E non possiamo tenere ferma l’attività troppo a lungo, anche per i consumatori, gli stabilimenti, i ristoranti e le pescherie.”
In una città di mare, naturalmente, la pesca si intreccia con la politica locale. Entrando nel mercato ittico del porto, incontriamo Lorenzo Marinangeli, commerciante di pesce e consigliere comunale di opposizione della Lega: “La crisi non inizia oggi. Per varie ragioni le importazioni di pesce dall’estero sono aumentate negli anni e ciò ha impoverito il nostro mercato, con l’ingresso dello stesso tipo di pesce a costo più basso. Pesce ammazza pesce, come si dice.”
Quando gli chiediamo che cosa pensa dello sciopero, risponde che oggi, di fatto, anche chi commercia pesce non lavora, anzi è in “sciopero obbligatorio”. E aggiunge: “Con la riduzione delle giornate di pesca previste, il costo del pesce aumenterà e quello locale che vendiamo noi non sarà più competitivo.”
La preoccupazione serpeggia anche fra le imprese più grandi, che operano a livello nazionale e internazionale.
A causa degli scioperi, i grandi commercianti sono stati forzati a trattare quasi soltanto pesce d’importazione. Probabilmente, molti di loro resisteranno allo shock di questi mesi, mentre le imprese più piccole chiuderanno e il mercato diventerà più concentrato.
Pescatori, commercianti, distributori, ristoratori e consumatori finali operano a livelli diversi e hanno interessi distinti, a volte anche in conflitto tra loro. Se il prezzo del pesce aumenta, i più alti ricavi del pescatore saranno i maggiori costi del commerciante, che rischiano di essere scaricati a valle sui consumatori. La conseguenza è la riduzione del potere di acquisto.
Secondo Francesco Petta, esperto di politiche comunitarie della pesca, il caro del gasolio è solo la punta dell’iceberg: “Al fondo dei problemi della pesca italiana c’è una mancata programmazione. Il settore è stato indebolito dall’assenza di una corretta attuazione della politica comunitaria, perché le decisioni europee non sono state filtrate adeguatamente.”
Petta spiega che l’obiettivo condiviso da anni a livello europeo è quello di diminuire i volumi della pesca (lo “sforzo di pesca,”, in gergo), al fine di preservare lo stock ittico nel Mediterraneo e rendere il settore più sostenibile. Le politiche comunitarie come l’Agenda 2030 inducono gli Stati membri a effettuare una sorta di “selezione naturale” delle flotte, incentivando la demolizione delle imbarcazioni più vecchie e inquinanti e scoraggiando gli investimenti in attività di pesca non sostenibili.
Ma nella pesca italiana c’è un problema organizzativo. “Il settore ittico non ha fatto i conti con gli effetti delle politiche europee e le trasformazioni in corso. La crisi era annunciata: la sua vera causa non è il caro del gasolio, bensì la mancata programmazione a livello nazionale. Oltre al fatto che una politica standardizzata su scala europea non può funzionare correttamente per tutti gli Stati membri, avendo biodiversità e caratteristiche troppo differenti.”
Ora siamo arrivati a un punto di non ritorno:
“Il settore ittico fondato sulle cooperative rischia di saltare: in quel caso ci sarà una deflazione dei valori delle licenze di pesca e delle imbarcazioni. Chi sopravvivrà darà vita a un sistema armatoriale sul modello scandinavo, con tecnologia più avanzata e barche in segmenti 12/24 metri.”
Anche nella pesca, dunque, emerge la necessità di un’adeguata politica industriale. “I pescatori vogliono lavorare,” ci dice Petta. “Ma non bastano sussidi o sovvenzioni palliative: è necessaria una vera programmazione a lungo termine, con piani di gestione regionalizzati. Diversificare le attività di pesca, investire negli istituti nautici e nell’indotto, stimolare l’innovazione tecnologica. Questo è ciò che serve per avere una flotta competitiva in grado di reggere la pressione dei porti europei.”
Dunque, un approccio puramente emergenziale rischia di non cogliere il punto. Domenica 12 giugno i pescatori dell’Adriatico sono tornati in mare, ma con la mente già alle prossime decisioni del governo, in particolare della conferenza Stato-Regioni.
La buriana del caro gasolio sta mettendo in ginocchio la pesca, ma può essere anche l’occasione per costruire una nuova visione strategica per il settore. Una visione che dia risposte ai pescatori e agli altri lavoratori dell’indotto e allo stesso tempo preservi i nostri mari. Perché, dopotutto, navigare necesse est, come recita l’epigrafe al porto di San Benedetto del Tronto.
tutte le foto di Alessandro Bonetti
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