Il Parlamento ha rinviato la discussione sull’approvazione dello ius scholae, una parziale riforma della cittadinanza che permetterebbe ai bambini, figli di genitori stranieri, di diventare italiani entro i 12 anni. Una nuova affermazione del ritardo italiano sui diritti civili
L’ostruzionismo leghista sull’avanzamento dei diritti civili funziona sempre molto bene. La discussione sul disegno di legge sullo ius scholae è saltata dal calendario di maggio della Camera, grazie all’ostruzionismo del capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari. L’ostruzionismo leghista ha rimandato a giugno la discussione, mentre il testo della proposta di legge è gravato da centinaia di emendamenti presentati il mese scorso.
Lo ius scholae è una riproposizione dello ius culturae: già nel 2015, la Camera aveva approvato una riforma che avrebbe introdotto il diritto di cittadinanza legato all’istruzione. Si prevedeva che potessero chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni e che avevano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). Il 9 marzo 2022 la Commissione Affari Costituzionali alla Camera aveva dato parere favorevole a un progetto di legge in questo senso.
Lo ius scholae è da non confondere — come vorrebbe la destra — con lo ius soli, caso in cui la cittadinanza viene concessa per il solo fatto di essere nato sul territorio italiano, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. In Francia esiste una forma di ius soli ‘temperato’.
L’Italia aspetta una riforma della cittadinanza da 30 anni. Era il 1992 quando la legge n. 91 del 5 febbraio regolava l’ottenimento della cittadinanza italiana sul principio dello ius sanguinis, in base al quale la cittadinanza viene “ereditata” automaticamente alla nascita se almeno uno dei genitori già la possiede. In quegli anni, la società italiana assisteva alla prima vera ondata migratoria dal Maghreb e, successivamente, dei rifugiati dall’ex-Yugoslavia.
I figli nati in Italia da genitori stranieri possono diventare cittadini italiani per dichiarazione se risiedono legalmente ed ininterrottamente fino ai 18 anni in Italia, a condizione che la richiesta venga fatta entro un anno dal compimento della maggiore età. Una norma draconiana, se consideriamo la mobilità, la globalizzazione, la società europea e liberale che spinge all’integrazione ma che, di fatto, la limita entro questi termini nazionalisti.
Lo ius sanguinis è il modo più stringente per attribuire la cittadinanza, perché lega l’ “essere italian*” de iure all’appartenenza di sangue. Si tratta di una teoria che mantiene una visione conservatrice dell’ “italianità”, cara alle destre.
Ma che non convince del tutto nemmeno le ‘sinistre’, perché negli anni sono state perse numerose occasioni dai governi dem per riformare la materia. Una su tutte: “Dobbiamo fare tesoro degli errori come quello, drammatico, del 2017 sul cosiddetto ‘Ius soli’: farsi dettare l’agenda e dimostrarsi incapaci di decidere, infatti, fa perdere di credibilità l’intera sfida culturale. Perché la sconfitta su questo provvedimento non è semplicemente una sconfitta parlamentare, di quelle che possono starci nel corso di una legislatura, peraltro molto ricca sul piano dei diritti. La vicenda ius soli, per come è stata gestita dal governo di allora e da una parte del mondo di riferimento della sinistra, segna una resa culturale e una strumentalizzazione politica.” Chi lo ha scritto? Matteo Renzi nel suo libro “Un’altra strada,” pubblicato nel 2019.
Secondo Fondazione Ismu più un milione di bambini e ragazzi, nati da genitori stranieri, non ha la cittadinanza italiana, un quinto della popolazione straniera complessivamente residente in Italia. In particolare, è significativa la fascia dei giovanissimi fino ai 7 anni, che costituiscono il 50% dei minori stranieri. Il rapporto di Fondazione Ismu sulle migrazioni in Italia del 2021, afferma che gli alunni con background migratorio sono più di 870mila.
Perché ottenere almeno l’approvazione dello ius scholae è importante?
Innanzitutto perché sarebbe un atto di civiltà nei confronti dei bambini di genitori stranieri che fanno parte della nostra società, della scuola. La frattura tra “essere italiano” e “sentirsi italiano” si produce esattamente quando, per ragioni burocratiche, non si possono realizzare gli stessi sogni o non si hanno gli stessi diritti degli italiani de iure. Un esempio sono le atlete e gli atleti che non possono gareggiare con l’Italia a livello internazionale, ma devono aspettare almeno i 18 anni, con grande difficoltà e un gap professionale da colmare. Ma lo stesso ragionamento può estendersi a professioni ‘comuni’: forze dell’ordine, incarichi dirigenziali pubblici.
Poi ci sono tutti i motivi che riguardano l’avanzamento di una società civile: apertura, scambio, accoglienza, integrazione, ricadute economiche positive, aumento della fiducia. Ma questo, per il momento, non sembra essere la priorità della politica italiana.
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