La Francia è davvero diventata di destra?

Manca poco alle presidenziali e i francesi cercano di non andare ‘troppo a destra.’ A livello nazionale il Partito socialista si è rotto definitivamente, Mélenchon resta l’unica alternativa di sinistra  a Macron. Ne abbiamo parlato con studenti, pensionati e lavoratori

La Francia è davvero diventata di destra?

in copertina, foto Emanuela Colaci

Manca poco alle presidenziali e i francesi cercano di non andare ‘troppo a destra.’ A livello nazionale il Partito socialista si è rotto definitivamente, Mélenchon resta l’unica alternativa di sinistra  a Macron. Ne abbiamo parlato con studenti, pensionati e lavoratori

Nella prefazione al suo ultimo libro Comment sommes-nous devenus réacs? (Fayard, 2021), la politologa Frédérique Matonti, parlando dello spazio ottenuto nel dibattito pubblico in Francia da idee sempre più reazionarie, scrive: “non si tratta solamente di deplorarle, bensì di preparare una nuova egemonia culturale per rispondervi.” In un paese che dimostra più amore per Gramsci di quanto forse gliene venga riservato nel suo stesso paese natale, proprio il concetto di “direzione intellettuale e morale” elaborato dal filosofo di origini sarde è fondamentale per capirne il netto spostamento a destra dell’asse politico.

Où est la gauche?

“Forse abbiamo capito Gramsci meglio di voi,” scherza Rhany. Giovane di origini algerine, lavora come mediatore nei quartieri popolari di Montpellier ed è attivista del movimento municipalista Nous Sommes. Si parla della candidatura di Jean-Luc Mélenchon, che nonostante un consenso ridotto rispetto al 19% di cinque anni fa (oggi i sondaggi lo danno intorno al 13%) sembra essere per l’ennesima volta l’unico attore in grado di mobilitare la sinistra. “Mélenchon è stato bravo a lavorare sui territori, provando a costruire un nuovo rapporto tra lo Stato e i comuni,” prosegue Rhany. “Inoltre, ha capito che l’opposizione destra-sinistra funziona meno che in passato:” ed è vero, perché nonostante tutti i candidati conservino delle coordinate ideologiche definite e facilmente riconoscibili, gli elettorati appaiono adesso molto più eterogenei al loro interno.

Ci sono però degli evidenti limiti a questo sforzo. Ad esempio, la capacità di scalfire un sistema politico terremotato sul piano nazionale dall’elezione di Macron, che ha rotto lo storico duopolio socialisti-gollisti, ma ancora resistente ai cambiamenti politici sul locale: “il Parti Socialiste è praticamente morto per quanto riguarda le elezioni nazionali, ma resta ancora molto ramificato nel Paese,” dice Ramy. In effetti, nelle 42 città francesi sopra i 100mila abitanti, i socialisti esprimono 15 sindaci, seguiti dai repubblicani con 14. Segno di un bipolarismo ancora non del tutto estinto nei territori, e che però impedisce alla sinistra di ricondensarsi intorno a progetti o personalità nuove.

“Anche i sindacati, che una volta concorrevano alla creazione di una forte identità di classe, oggi hanno perso influenza nel contesto della sparizione della classe operaia francese e dei suoi leader,” dice Talal, studente di Sociologia alla Sorbonne Université di Parigi. Secondo gli ultimi dati, nel 2019 gli iscritti a un sindacato rappresentavano il 10% dei lavoratori salariati; nel 1975, questa percentuale oscillava intorno al 20%. “La Francia non si è spostata a destra, in tanti ancora si rifiutano di votare per la destra. Ma il tessuto della sinistra e le sue istituzioni si sono distrutte.”

Nessun argine alle destre

“La sinistra è ancora molto divisa. Ma la gente ha paura.” Sylvie insegna il francese ai migranti, e lavora anche con il Comité des Sans Papiers 59 di Lille. La sua paura è certo quella per la vittoria della destra e in particolare per le sue forme più estreme: Marine Le Pen ed Éric Zemmour, che insieme raccolgono circa il 30% dei consensi. E se questa paura riesce a condensare la galassia della sinistra radicale sotto la bandiera di Mélenchon, in realtà l’effetto più vistoso è quello di cristallizzare una situazione in cui una larga fetta di elettorato non vede alternative percorribili rispetto al “meno peggio” rappresentato da Macron, destinato così a vincere nonostante un consenso limitato nel Paese.

Un fenomeno non nuovo in Francia: “Nel 2002 i francesi andarono a votare in massa per Chirac (repubblicano, ndr) per fermare il Front National di Jean-Marie Le Pen. Ciò ha dato un grosso schiaffo alla sinistra,” dice Margot, studentessa alla Sorbonne in Studi italiani. In questo contesto si inserisce l’enorme problema dell’astensione: “La popolazione non va più a votare, soprattutto nei quartieri popolari. E anche se i ceti più abbienti sono minoranza nel paese, finiscono per essere maggioranza nelle urne,” dice Ramy. Per Margot: “Alle ultime elezioni c’è stata  un’astensione enorme, nonostante la presenza di Le Pen al ballottaggio.” Nel 2002 il 71% dei francesi votò al primo turno, mentre il 79% si espresse al ballottaggio per bloccare il pericolo del Front National. Nel 2017, invece, lo stesso timore non è riuscito ad evitare un calo, seppur lieve, dell’affluenza (77% al primo turno, 74% al secondo). “Votare Macron è, nella maggior parte dei casi, votare per dispetto, per evitare il peggio. Ma sempre più persone pensano che non cambi davvero molto: da qui l’astensione,” conclude Margot.

Sylvie, prossima alla pensione,  teme anche  le riforme sociali dello stesso Emmanuel Macron. “Mélenchon ci ascolta, Macron no. E lo dimostra la proposta della pensione a 65 anni.” Qualche giorno fa, infatti, il presidente francese ha annunciato una delle prime riforme che proporrà in caso di rielezione: l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni, rispetto ai 62 attuali.

Il fatto stesso che Macron possa proporre una riforma così impopolare in piena campagna elettorale è sintomatico di quanto il presidente si percepisca come inattaccabile, in mancanza di sfidanti realmente competitivi. In queste condizioni, Macron può agitare lo spauracchio dell’estrema destra per limitare gli spazi di discussione del proprio progetto politico. Un programma che però non ha nulla da invidiare alle destre, soprattutto in materia economica: uno dei provvedimenti più emblematici in questo senso, tra quelli varati nel suo primo quinquennio, è l’abolizione dell’ISF (l’imposta sul patrimonio), varata nel 2018 e che, secondo un rapporto del Senato nel 2019, ha fruttato per ciascuno dei cento uomini più ricchi del Paese un guadagno di 1,7 milioni in un anno. Da qui, soprattutto, l’appellativo per Macron di “Président des riches”, Presidente dei ricchi.

Ma il tentativo di trasformare questa elezione in un plebiscito su un pacchetto di riforme imposto dall’alto e non concordato con la cittadinanza rischia di essere un enorme boomerang per Macron. Il presidente uscente, infatti, già durante il suo primo quinquennio ha dovuto far fronte a diverse ondate di proteste popolari, di cui quella dei Gilet Jaunes è stata solo la punta dell’iceberg più rumorosa: dalla Loi de Securité Globale alla riforma dell’assicurazione sulla disoccupazione, passando per le proteste contro un’altra proposta di innalzamento dell’età pensionabile, Macron ha conosciuto durante la sua presidenza un forte dissenso che, forse proprio per la sua incapacità di trovare effettivi sbocchi politici, si è manifestato in tutta la sua veemenza principalmente nelle strade.

Capire l’egemonia

Ma dove finisce allora la protesta contro Macron e soprattutto contro il paradigma economico e sociale che rappresenta? La risposta più semplice è: dove la porta il vento. E l’aria che tira in Francia è quanto mai di destra, soprattutto dal punto di vista mediatico.

“Se si scelgono media come Twitter, la maggior parte degli utenti è di sinistra,” sostiene Talal, “ma quando si parla di televisione si può effettivamente parlare di uno spostamento a destra del discorso politico.” “Le tesi di Zemmour e Le Pen sono sostenute da canali, come CNews e C8, di proprietà di Vincent Bolloré, che è un sostenitore di Zemmour.” Proprio su CNews Zemmour ha costruito quella popolarità, in veste di polemista, che lo ha portato alla candidatura alle presidenziali. E tra i principali finanziatori della sua campagna, secondo Mediapart, è possibile trovare Chantal Bolloré, sorella di Vincent e membro del CdA del gruppo omonimo. Un dominio mediatico che interessa anche l’Italia: nel gruppo Bolloré infatti rientra anche Vivendi, azienda che detiene quote, tra le altre, di TIM e Mediaset.

Per capire come questo strapotere influenzi la società francese nel suo complesso, basti pensare che proprio a CNews, nel febbraio 2021, la ministra per l’Insegnamento superiore, la Ricerca e l’Innovazione Frédérique Vidal ha dichiarato di voler aprire un’inchiesta sulla diffusione dell’“islamo-gauchisme” nelle università del Paese. Un concetto difficile da tradurre: stando alle parole di Vidal è “una sorta di alleanza, se così si può definire, tra l’ayatollah Khomeini e Mao Tse-Tung.” Più prosaicamente, si tratta di un avvicinamento ideologico, denunciato soprattutto da gruppi ultraconservatori e di estrema destra, tra militanti della sinistra radicale e gruppi islamisti. Il tentativo di tacciare gli studi post-coloniali, la militanza antirazzista, per non parlare di qualsiasi posizione più progressista su temi legati alle migrazioni, di “collusione” con l’estremismo islamico non è una novità per gli ambienti conservatori. Sorprende di più, forse, che posizioni del genere arrivino da una ministra che fa parte de La République en Marche, ovvero il partito di Macron.

Scardinare un discorso pubblico che sembra procedere solo per sorpassi a destra resta, dunque, un’impresa lontana dal realizzarsi, in Francia come nel resto dell’occidente. “In Italia avete avuto Gramsci, è vostro: anche voi avete una tradizione di sinistra,” dice Sylvie. Probabilmente, un ripasso non farebbe male a nessuno.

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