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Un nuovo libro ripercorre i legami tra la confederazione degli industriali e la destra eversiva dalla fine del fascismo alla strategia della tensione. Ne abbiamo parlato con l’autore, Elio Catania

Nella prima fase della pandemia in Italia abbiamo visto riaccendersi il conflitto tra salute e lavoro — e quindi, più in generale, tra padronato e lavoratori, profitto privato e benessere collettivo. Le pressioni degli industriali contro le chiusure anti-Covid nella primavera del 2020, in particolare nella provincia di Bergamo, hanno dimostrato la miopia di un ceto produttivo rapace e disposto a mettere a repentaglio la salute della collettività pur di preservare i profitti. Con una dichiarazione infelice che gli sarebbe costata le dimissioni, il presidente di Confindustria Macerata, a dicembre dell’anno scorso, ha sintetizzato efficacemente questo atteggiamento: “La gente è stanca e se qualcuno muore, pazienza.” 

Ripercorrendo la storia di Confindustria, si scopre che esiste un filo rosso — o meglio, nero che collega il comportamento degli industriali di fronte al virus e il ruolo di Confindustria nello sviluppo economico e politico del paese negli anni dal 1946 al 1975. Se ne occupa il ricercatore Elio Catania nel suo ultimo libro, uscito poco più di un mese fa per Mimesis edizioni: Confindustria nella Repubblica (1946-1975): Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione. Nel saggio, attingendo soprattutto a fonti giudiziarie e archivistiche, Catania ricostruisce minuziosamente le mosse della confederazione industriale negli anni della ricostruzione, del “boom economico” e poi delle grandi lotte sociali tra gli anni ’60 e ’70, documentando i legami tra i maggiori gruppi industriali e quei settori dei servizi segreti e della destra eversiva che, di fronte alla percepita minaccia comunista, sognavano un golpe sul modello greco o sudamericano. 

Ne emerge un quadro poco lusinghiero per il capitalismo italiano, uscito sostanzialmente immutato dal crollo del fascismo e pronto a sacrificare la neonata democrazia per difendere i propri profitti dalle rivendicazioni sociali. In quei trent’anni, per dirla con le parole dello storico Aldo Giannuli, che firma l’introduzione del libro, “la Confindustria era al massimo del suo potere, ma quel potere non fu usato per modernizzare il paese, per sviluppare un’industria innovativa e neppure per sviluppare la crescita civile della società e il processo di democratizzazione. Al contrario, i documenti ci dicono che la Confindustria ha giocato la sua forza per ostacolare l’accesso delle masse nel sistema di potere del paese.”

Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore pochi giorni fa, nel corso di una presentazione del libro alla Camera del Non Lavoro di Milano, lo spazio gestito da ADL Cobas all’interno del casello daziario di piazzale Baiamonti. Riportiamo qui, sotto forma di intervista, una parte della nostra conversazione. Alle 17.30 di oggi, nell’ambito di Bookcity, Catania presenterà il libro insieme a Aldo Giannuli e Elia Rosati nell’Area Scavi della Borsa, in piazza Affari 6. 

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Perché una storia di Confindustria? 

Mi sembrava importante ricostruire la storia di un soggetto su cui, nell’ambito della storia repubblicana e in particolare della strategia della tensione, mancavano finora ricerche complessive, al di là dei resoconti celebrativi o agiografici. Eppure nei decenni sono emersi diversi elementi, sia nelle inchieste giudiziarie sia nei lavori della controinformazione militante, sul ruolo che ha giocato Confindustria non soltanto nel “quinquennio nero” 1969-1974, ma in generale con quelle formazioni e quei blocchi sociali che a destra e al centro si sono mossi per contenere gli sviluppi democratici e le rivendicazioni delle classi subalterne. Queste ultime hanno espresso in Italia una conflittualità sociale per certi versi unica nel panorama occidentale, figlia anche di un modello di sviluppo che dopo la guerra e il fascismo ha messo la classe lavoratrice in una posizione di forte subalternità e precariato. C’è poi anche un motivo più recente che mi ha spinto a scrivere il libro: la crisi pandemica che stiamo vivendo, che mi sembra il punto culminante di una crisi sociale iniziata in Italia almeno dieci anni fa.

Nell’introduzione, Aldo Giannuli parla di una “vistosa lacuna” storiografica a proposito di Confindustria. Quali fonti hai potuto consultare per la tua ricerca?

Faccio una premessa: io sono quello che una volta si definiva uno storico “scalzo,” ovvero non faccio lo storico né il ricercatore di mestiere. Ma il lavoro storiografico e di ricerca mi ha sempre accompagnato e ha sempre caratterizzato la mia identità, anche politica. Nel 2010 ho lavorato, insieme a un altro gruppo allora giovani studenti e ricercatori di Storia, come ausiliario di Aldo Giannuli, che faceva il perito per conto dell’accusa nell’ultimo processo sulla strage di Piazza della Loggia. Ho avuto accesso quindi a circa un milione e trecentomila pagine di documenti acquisiti nei processi precedenti, e mi sono basato prevalentemente su questi, lavorandoci per un anno e mezzo, in piena pandemia. 

Banalizzando un po’, si potrebbe dire che  per tutta la propria storia Confindustria si è mossa per difendere gli interessi dei ceti padronali — e questo non dovrebbe stupirci. O c’è qualcosa di più?

Bisogna fare una distinzione, secondo me: da un lato c’è una semplice attività di lobbismo, di pressione sul potere politico per spingerlo ad adottare provvedimenti che tutelassero i propri interessi. Dall’altro, però, c’è un rapporto che si sviluppa molto precocemente con l’estrema destra, a partire dal Movimento Sociale Italiano: già alla metà degli anni Cinquanta Confindustria finanziava l’MSI, che in quel momento viveva una lotta interna tra Michelini e Almirante, tra una corrente che voleva integrarsi nel sistema repubblicano e l’opposizione di destra. Ma emergono anche finanziamenti e sostegni verso i gruppi a destra del Movimento Sociale: il Centro Studi Ordine Nuovo e Junio Valerio Borghese, che alla metà degli anni Cinquanta si era reso disponibile per organizzare squadre anti-sciopero durante le poche mobilitazioni sociali del “lungo inverno” che caratterizzò il movimento operaio in quel decennio. 

Che ruolo ha giocato, in questo, la percepita “minaccia comunista” rappresentata non solo dal Pci, ma anche dal Partito socialista che negli anni Sessanta sarebbe entrato nel governo insieme alla Dc?

Nonostante i risultati piuttosto scarsi rispetto alle aspettative iniziali sul piano delle riforme, il centro-sinistra con l’ingresso del Psi al governo nei primi anni ‘60 sicuramente rappresentava una minaccia per Confindustria. Ad esempio, Assolombarda, nel suo giornale L’Industria Lombarda, nel 1962 sosteneva che il paese fosse alla vigilia della “sovietizzazione.” Di fatto vediamo che Confindustria — e singoli industriali al suo interno, non dobbiamo considerare la confederazione come un blocco monolitico, c’erano ampie differenze interne sia territoriali, sia in base ai settori produttivi — non si muovono soltanto nel sostegno e nel finanziamento a forze politiche “legittime.” Al contrario, si inseriscono anche nelle forze che nascono come conglomerazioni di destra che prima rifiutano la vittoria della Repubblica al referendum del ’46, perché la vedono come l’anticamera di un governo comunista o socialcomunista. Poi rifiutano il fatto che non vengano messi fuorilegge il Pci e i sindacati, in particolare la Fiom. Poi rifiutano l’ingresso dei socialisti al governo. Infine, negli anni Sessanta e Settanta, quando esplode una conflittualità sociale che esonda dai limiti imposti dallo stesso Pci e dai sindacati confederali, si oppongono a quelle rivendicazioni e sostengono le opzioni più radicali: non soltanto la strage come metodo di lotta politica, ma anche la possibilità di un colpo di stato. O militare alla maniera greca, o alla maniera francese: un golpe “bianco,” che si fa ma non si dichiara.

La tua ricerca si interrompe nel 1975, e non per caso: finisce la strategia della tensione propriamente detta, cambia il contesto internazionale, si apre una stagione diversa nel rapporto tra Confindustria e i sindacati. 

Dobbiamo tenere presente che il quinquennio nero tra il 1969 e il 1974 è stato reso possibile da un contesto internazionale ben preciso: l’alleanza atlantica aveva al proprio interno una dottrina militare ufficiale, la dottrina della contro-insorgenza o guerra rivoluzionaria, che teorizzava anche l’utilizzo di diversi metodi di lotta politica per contrastare la “sovversione interna.” Dal punto di vista delle classi dirigenti militari, economiche e politiche in occidente, qualunque tipo di conflitto sociale e di politicizzazione a sinistra era interpretato automaticamente come una quinta colonna del nemico sovietico. In questo contesto si inseriscono diversi colpi di stato in America Latina, il colpo di stato in Grecia nell’aprile del ’67, e anche la possibilità che una parte della classe dirigente italiana accetti di utilizzare l’estrema destra come manovalanza per spingere sempre un po’ più in là la minaccia — e non solo la minaccia — di un colpo di stato militare. Nel ’75 questa dottrina cambia: cadono le dittature fasciste iberiche ma anche la dittatura dei colonnelli in Grecia, l’estrema destra perde in parte quegli appoggi di cui aveva goduto negli anni precedenti. Ma ci sono anche fattori nazionali: tra questi un cambio a livello di paradigma di governo, che non fa venire mai del tutto meno la conventio ad excludendum nei confronti del Pci, ma modifica il tipo di rapporti che si possono avere con un Partito comunista che accetta una serie di regole non tanto democratiche, ma della costituzione materiale del paese. E cambia anche il rapporto con i sindacati. 

Questo porta a una maggiore “democraticità” del mondo industriale, oppure no?

Confindustria non è mai diventata democratica, non lo era neanche all’indomani della guerra. Alla metà degli anni Settanta arrivano alcuni compromessi sia legislativi, sia di diritto del lavoro, che portano a mettere la parola fine, o comunque a ridurre la carica di conflittualità sociale — che comunque in Italia durerà ancora molti anni. Arrivare a un compromesso, ridurre il conflitto sociale anche facendo concessioni importanti ai lavoratori – in particolare, nel ’75, l’accordo sul punto unico di contingenza della “scala mobile.” Questi compromessi però non comportano una maggiore democrazia sui luoghi di lavoro e una democratizzazione di confindustria, ma semmai segnano l’inizio in qualche modo della concertazione per come la conosciamo oggi. 

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in copertina, gli operai della Pirelli scioperano fuori dalla fabbrica a Milano nell’autunno del 1969. Foto nel dominio pubblico via Wikipedia Italia