L’orrore siamo noi e il cinema l’ha sempre saputo

In collaborazione con MUBI, questo ottobre indaghiamo la trasformazione dell’horror da genere cinematografico di nicchia e sovversivo a elemento innervato e diluito in quasi tutti i generi dei film contemporanei.

L’orrore siamo noi e il cinema l’ha sempre saputo

in copertina: Force Majeure, Ruben Östlund, 2014, su concessione MUBI

In collaborazione con MUBI, questo ottobre indaghiamo la trasformazione dell’horror da genere cinematografico di nicchia e sovversivo a elemento innervato e diluito in quasi tutti i generi dei film contemporanei.
Questa è la prima puntata, la seconda uscirà il 31/10

Una delle prime scene orrorifiche a cui mi sono sottoposto nella sala buia del cinema è di un film storico, privo di ogni legame apparente con i cliché dell’horror scolastico. In un castello mantovano alcune sanguisughe, applicate a una ferita da cannone, si scagliano sulla carne morente di Giovanni de’ Medici, protagonista de Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Nel film del 2001 — presentato da MUBI nella selezione di ottobre — il corpo è materia, lacerato dall’avanzare della modernità e divorato da vampiresche creature. I miei occhi osservavano con disgusto e fascinazione le inquadrature, incapaci di cogliere la macabra metafora che si celava dietro alle immagini del film. Il cambio di passo da Medioevo a modernità messo in scena da Olmi è una ferita nella storia dell’essere umano che non si può rimarginare, un punto di non ritorno per il carattere violento e sopraffacente delle nostre società.

Ma il 2001 è anche l’anno in cui i linguaggi mediatici sono stati riscritti in seguito all’attacco contro le Torri Gemelle. All’interno di narrazioni letterarie, cinematografiche e televisive sono apparse nuove paure, mentre nuovi ibridi sono nati dal crollo delle convenzioni stilistiche. In questo processo di riscrittura e abbandono delle certezze, le immagini del cinema hanno sopportato il peso della transizione culturale di inizio millennio, restituendo sotto traccia una rappresentazione spesso feroce della società contemporanea. Quello che Olmi raccontava nel suo film si è di nuovo palesato con l’arrivo degli anni Duemila: una ferita impossibile da richiudere su cui si innestano le paure di una nuova epoca.

In questo contesto l’horror — esploso economicamente e diffusosi tra il grande pubblico a partire dagli anni Settanta — si è diluito e, da genere codificato, si è allargato diventando un elemento ricorrente di tutta la produzione cinematografica. Come scrive Charles Derry nel suo libro Dark Dream 2.0: “La grande ironia è che gran parte dell’immaginario horror più potente, tra i film recenti, non arriva da film horror in sé, ma da film di altri generi.” Ridotto a comune denominatore dallo studio system americano, l’orrore, quello capace di smuovere la visione standardizzata dello spettatore e smascherare i conservatorismi mediatici, ha dovuto cercare casa da altre parti per mantenere intatta le proprie qualità sovversive.

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Il cartellone MUBI di questo mese permette di esplorare la frammentazione dell’horror da genere a stilema universale su diversi livelli. Il primo film che ci permette un discorso sulla rappresentazione dell’orrore è Il figlio di Saul di László Nemes, in cartellone dal 10 ottobre, Oscar come Miglior film straniero nel 2016 e caso cinematografico per la documentaristica ricostruzione dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. L’opera — che segue le vicende di Saul Ausländer, ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau e reclutato come Sonderkommando — racchiude nei suoi lunghi piani sequenza e nelle sue inquadrature sfocate il peso di ciò che non può essere immaginato o pensato. Così preciso e indelebile nella sua descrizione degli ingranaggi (umani e non) dell’Olocausto da essere definito sul Guardian come “ un film horror di straordinaria rilevanza e coraggio.” La vicinanza dello sguardo di Nemes al genere è ancora più evidente se accostato ad altre opere sul tema come Schindler’s List di Steven Spielberg o Nuit et brouillard di Alain Resnais. Dove questi ultimi si riempiono dell’audacia visiva tipica del gusto hollywoodiano (nel caso di Spielberg) e di distacco giornalistico (nel caso di Resnais), il Saul di Nemes invece è votato fino alla fine al linguaggio orrorifico. Tutto nei dettagli del finale ce lo dimostra: le inquadrature della camera a mano, i corpi zombificati, la fuga nei boschi e l’onnipresente incombenza del male.

Se László Nemes ricerca l’orrore all’interno delle camere a gas naziste, chi invece si mantiene al di fuori dei luoghi del crimine è il regista argentino Jonathan Perel, autore del documentario Corporate Accountability. Una personale indagine, in linea con la tradizione cinematografica del Tercer Cine, su repressioni e omicidi avvenuti durante la dittatura all’interno delle fabbriche del paese. Lo sguardo di Perel, che si ferma ai limiti spaziali dei luoghi di lavoro, ci descrive per immagini la banalità del male. Come spiega lo stesso regista: “L’idea principale del film è quella di far vedere le fabbriche ancora in funzione. Questo è l’aspetto fondamentale: loro hanno vinto.” Le colonne di fumo che fuoriescono dalle ciminiere si caricano così di una crudeltà che non collega solo le fabbriche argentine agli orrori della dittatura, ma ancora più indietro alle ricostruzioni del film di Nemes e del dramma della Shoah. Un dialogo, quello tra le due opere, che è impossibile ignorare.

Corporate Accountability, Jonathan Perel, 2020

Rimane un orrore interiore da affrontare: quello dei rapporti umani (dopo quelli disumani). Lo fa con intelligente severità il regista Ruben Östlund in Forza maggiore, inserito nella Top 1000 di MUBI. In un paesaggio alpino camuffato da benevolo ritiro per turisti, una famiglia assiste a una valanga durante la quale il marito Tomas fugge lasciando indietro moglie e figli. La valanga è un falso allarme, ma la rottura è avvenuta e il film registra lo spaccarsi delle convenzioni familiari. Circondati da strutture metalliche, tensioni fisiche e sentimentali, Östlund — erede degli incartamenti psicologici e spaventosi dell’austriaco Michael Haneke (come dimenticare l’orrore di Funny Games) — ci guida dentro la desolante decomposizione dell’individuo, che passa inevitabilmente dall’incapacità di capirsi e di comunicare.

Force Majeure, Ruben Östlund, 2014

In tre passaggi obbligati (Il mestiere delle armi, Corporate Accountability e Forza maggiore) ci possiamo quindi calare nel ventre da cui prendono forma le nostre paure. Attraverso immagini, ricorrenze e sovrapposizioni, ci rendiamo conto che l’orrore in horror non risiede solo in opere di genere, ma anzi scaturisce prepotentemente da tutto ciò che si rivela essere figlio delle paure o degli orrori dell’umanità.

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