La promessa di Uber, e di servizi simili, era quella di decongestionare le città dal traffico e di avere un impatto ambientale minore delle auto private. Uno studio pubblicato su Environmental Sciences & Technology però dimostra il contrario
Nel 2016, durante un incontro del World Economic Forum a Tianjin, in Cina, il cofondatore di Uber Travis Kalanick chiedeva ai presenti di immaginare un futuro senza auto di proprietà. “Pensate a un mondo in cui i viaggi vengono condivisi, in cui le persone guidano da sole per andare al lavoro. Così, 30 persone vengono servite da 30 auto. Quelle 30 auto vengono usate solo il 4% della giornata. Per il restante 96% del giorno, vengono lasciate da qualche parte. Circa il 20-30% della superficie terrestre viene occupata solo da questi pezzi di metallo in cui guidiamo per il 4% della giornata”, raccontava.
“Possiamo fare di meglio. Con Uber, per servire 30 persone c’è bisogno di una sola auto al posto di 30. Con Uber Pool, premi un pulsante, apri la portiera, entri e trovi già qualcun altro in macchina, perché siete due persone che stanno facendo lo stesso viaggio nello stesso momento”, continuava Kalanick. “Non ci sarebbe bisogno di possedere auto. Basterebbe un servizio che ci porti dove vogliamo andare.”
Era una bella storia, quella delle app di trasporto privato che liberavano le città dalle macchine. Altrettanto bella era l’altra promessa fatta da Uber: quella di scardinare le vecchie concezioni del lavoro, facendo di ogni autista un microimprenditore che risponda soltanto a sé stesso.
Questa visione comincia ad essere rigettata in molti luoghi: particolarmente eclatante è il caso della Corte suprema del Regno Unito, che nella primavera del 2021 ha stabilito che Uber deve classificare tutti i suoi autisti non come appaltatori indipendenti ma come lavoratori, pagando loro quanto meno un salario minimo e le ferie. E anche l’idea che le applicazioni come Uber e Lyft, che sostanzialmente non fanno altro che mettere in contatto diretto passeggeri e autisti con maggiore flessibilità e a un prezzo spesso più accessibile rispetto a un taxi, possano liberare le città dal giogo delle auto non sta molto bene.
Un nuovo studio pubblicato di recente sulla rivista Environmental Sciences & Technology mostra che, lungi dal ridurre l’uso di auto personali e rafforzare l’uso dei trasporti pubblici come era stato promesso, l’aumento dell’utilizzo dei servizi di app come Uber e Lyft è direttamente collegato a un serio aumento del traffico e a un minore numero di passeggeri su autobus e treni.
I ricercatori sono giunti a questa conclusione simulando la sostituzione di 100mila viaggi su veicoli privati con 100 mila viaggi con un servizio di trasporto privato in sei città statunitensi, tra cui New York City, Chicago e Austin. Tenendo in considerazione le esternalità — ovvero i costi di un determinato bene o servizio che vengono sostenuti dalla società, e non dall’individuo che produce o fa uso di quel bene o servizio — legate alla guida in generale (come possono essere l’inquinamento atmosferico locale, le emissioni di gas serra o le morti per incidenti stradali), hanno calcolato in termini monetari quanto risparmia la società quando un viaggiatore chiama un Uber invece di guidare la propria macchina. E la risposta è stata… che la società si assume un costo medio di 35 centesimi per ogni viaggio con un servizio di trasporti privati.
Com’è possibile? Lo studio riconosce che prendere un Uber aiuti dal punto di vista atmosferico, perché un motore a combustione avviato a freddo inquina più di uno caldo, e che quindi i veicoli guidati da autisti che si spostano da un luogo all’altro tenendo acceso il motore inquinano meno da quel punto di vista. Questo vantaggio, però, è azzerato dagli impatti negativi del deadheading, ovvero del tempo morto tra una corsa e l’altra in cui i conducenti si muovono senza passeggeri per la città — un tempo pari, secondo le stime stesse di Uber e Lyft, al 40% di tutti i chilometri percorsi dai loro autisti. Il solo deadheading ha portato, scrivono i ricercatori, a un aumento del consumo di carburante e delle relative emissioni del 20% circa. A questo va aggiunto un aumento del 60% di traffico, rumore molesto e incidenti stradali. Nemmeno una transizione verso l’utilizzo esclusivo di veicoli ad emissioni zero da parte di queste compagnie azzererebbe queste esternalità, aggiungono i ricercatori. Non esattamente quello che prometteva Kalanick sei anni fa.
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Lo studio si aggiunge a una serie ormai molto nutrita di critiche alle compagnie che per anni hanno giurato che la cosiddetta sharing economy avrebbe rivoluzionato in positivo la società, portando innovazione in settori stagnanti, creando nuovi modi di guadagnare e aumentando la qualità dei servizi disponibili nei centri urbani. Oltre a servizi di trasporto privato come Uber e Lyft, che volevano sostituire i taxi e hanno finito per svuotare il trasporto pubblico, questa convinzione ha trascinato per anni un enorme entusiasmo per le app di delivery e per Airbnb, che doveva aiutare i proprietari ad espandere i propri flussi di entrate e gli utenti a viaggiare a minor prezzo. Nella schiacciante maggioranza dei casi, le esternalità negative hanno stracciato quelle positive.
I governi locali e nazionali si stanno progressivamente rendendo conto di non poter più tardare a rispondere ai problemi creati dalla sharing economy. E si trovano a doverlo fare di fronte a un tessuto sociale, economico e urbano stravolto.
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Foto: Erdenebayar Bayansan / Pixabay