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Internazionale a Ferrara è tornato. Nonostante le difficoltà logistiche date dalla pandemia, l’edizione 2021 non ha deluso le aspettative. Abbiamo provato a raccontarlo in tre cartoline

Dopo un anno di stop imposto dalla pandemia, il Festival di Internazionale a Ferrara è tornato. Appuntamento tradizionale per tutti gli appassionati di giornalismo estero che grazie al clima estivo sembrava tornato alla normalità. Impressione che si è infranta di fronte a file interminabili per accaparrarsi i biglietti dei singoli eventi, a centinaia di autocertificazioni da compilare e a continui controlli di temperatura e green pass. 

Non si può parlare comunque di un’edizione in tono minore. È vero, non c’è stata la folla degli anni pre-pandemia: tutti gli eventi sono andati sold-out su Eventbrite nel giro di poche ore e questo sicuramente ha scoraggiato molte persone a programmare un weekend a Ferrara. Per chi è riuscito a ottenere un biglietto, o ha avuto la pazienza di mettersi in coda alle 7 del mattino per quelli a disposizione in loco, tutto è filato liscio: il dispiacere più grande, come sempre, è non riuscire a seguire contemporaneamente tutti gli eventi.

Ambiente, migrazioni, femminismo, internet, scuola: la programmazione di quest’anno ha tenuto fede alle edizioni passate, coprendo le tematiche più importanti del dibattito pubblico in corso. Il Covid-19 è stato un convitato di pietra — nominato spesso, è rimasto soprattutto sullo sfondo. 

La più grande storia di tutti i tempi (e ancora non abbiamo imparato niente)

Con l’eccezione del responsabile della comunicazione di Greenpeace, Andrea Pinchera, il tema della catastrofe climatica è stato affrontato a volte con toni accusatori e paternalistici verso l’ultimo anello della catena, vale a dire il singolo cittadino-consumatore. Un approccio non particolarmente costruttivo e già noto per un pubblico — come quello di Internazionale a Ferrara — indubbiamente sensibile a questi argomenti.

Sarebbe stato più interessante affrontare l’elefante nella stanza — il sistema economico e produttivo capitalista che ci sta portando al disastro — invece di parlare velatamente di “sistema”, con argomentazioni che rischiano di risultare troppo semplicistiche e creare una contrapposizione fra un “noi” e un “loro.”

Le soluzioni proposte sono state banali — per fare un esempio: si è detto che a Roma ci sono troppe auto, circa 600 ogni 1000 abitanti. La soluzione proposta? Non le piste ciclabili e nemmeno il rafforzamento dei mezzi pubblici — che per come sono non sarebbero degni di una città piccola come Ferrara, figuriamoci per una capitale con milioni di abitanti. Secondo uno dei massimi esperti in tematiche ambientali in Italia, intervenuto durante uno dei panel, la soluzione sarebbe far pagare il parcheggio ai residenti, “come fanno in altri paesi europei.” 

Il filo delle parole

Tra i tanti temi delle conferenze di questa edizione, uno è stato particolarmente rilevante: quello del racconto — intrecciato a quello del linguaggio, lo strumento attraverso cui si racconta.

Un racconto che i relatori hanno spesso definito tortuoso e complesso, soprattutto per la vastità dei temi da raccontare. Ad esempio l’informazione sui disastri ambientali dell’antropocene e il futuro del pianeta. Oppure lo stigma che circonda il centro del discorso per la tossicodipendenza e il suo rapporto con il potere politico. O, ancora, la resistenza di chi detiene il potere quando si sente minacciato anche dal punto di vista linguistico, con tutte le controversie sulla questione dell’identità e dell’autorappresentazione per i soggetti marginalizzati. 

A fare da ponte — più o meno inconscio — fra i molti panel di questi tre giorni c’era la discussione su quale bagaglio linguistico sia necessario re-immaginare perché la complessità della vita contemporanea possa essere raccontata. Sicuramente l’intelligenza di menti come Maboula Soumahoro, Kübra Gümüşay, Telmo Pievani, Fabio Cantelli e Luigi Manconi può ricordarci che non abbiamo più tempo per rimandare lo sviluppo di un linguaggio che lega il racconto della realtà a quanto di tossico è presente nella nostra cultura.

Curiosità per tutto ciò che è normale

Ciò che spinge tante persone a partecipare a un evento come Internazionale a Ferrara è soprattutto la curiosità, trovare nuovi stimoli o partecipare a un momento di sapere e dibattito collettivo. Questa curiosità non l’ho tanto ritrovata nel pubblico, quanto soprattutto negli spunti di alcuni relatori. Come quelli di Vera Gheno e Kübra Gümüsay, nell’incontro “Come l’acqua per i pesci” moderato da Giulia Zoli. Le due linguiste e attiviste sono partite dal problema della barriera linguistica: quando la traduzione non sembra essere in grado di veicolare in ugual maniera un messaggio da una lingua all’altra, si prova un disagio, dovuto al fatto che si diverge dalla “norma” linguistica, o più semplicemente da tutto ciò che è considerato normale. 

Questo perché la tendenza a musealizzare, classificare e sistematizzare tutto ciò che riguarda la lingua non permette deviazioni dalla norma. Ciò che sembra non rientrare in una determinata categoria linguistica viene ridicolizzato o proposto come una “particolarità”, ossia qualcosa che diverge dalla norma. Il canone presuppone che esista sempre una autorità che stabilisce cosa è giusto e cos’è sbagliato. Scardinare questo principio fa paura a chi possiede le chiavi della norma: significa privarsi di un potere. Quando si parla una lingua si indossa una identità e più lingue si parlano più identità si hanno. Chi vive immerso in altre culture non può fare a meno di accorgersene — ecco perché essere dalla parte del diverso è sempre utile. 

Secondo Gheno e Gümüsay non bisogna farsi opprimere dal canone. Bisogna rinunciare a qualunque tipo di supponenza, e armarsi di umiltà: il “sapere di non sapere” va applicato in maniera attiva, bisogna guardare con occhi nuovi ciò che è stato a lungo considerato “diverso” e chiedersi semmai con curiosità cos’è quello che abbiamo davanti. 

Con parole diverse, ma con un sottotesto analogo, questo ragionamento si ritrova anche nel discorso del comico e podcaster John Modupe, autore del podcast Oh My John. “Voi lo sapete com’è l’accento nigeriano in inglese?”: parte da questa domanda per spiegare come mai ha deciso di fare un podcast per “raccontare una storia nuova,” in un panorama completamente privo delle voci dei neri italiani. “Dove tanti prima di me hanno visto un muro, io ho visto una enorme possibilità: quella di raccontarmi,” racconta a una platea di persone bianche. Da questo racconto nasce una possibilità nuova: creare curiosità verso un mondo che per molti italiani bianchi è ignoto. 

con il contributo di Francesco Fusaro e Elena D’Alì

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