Il “modello Milano” sta rendendo la città sempre più inaccessibile: cambierà qualcosa nei prossimi cinque anni?
Dal 2015 Milano non ha fatto che accelerare, ma lo ha fatto con un modello di sviluppo che ha solo accentuato le disuguaglianze. Abbiamo immaginato la Milano del futuro (e sottolineato le criticità del presente) con Adamo Mastrangelo, Gabriele Rabaiotti, Alice Ranzini e Jacopo Lareno
Dal 2015 Milano non ha fatto che accelerare, ma lo ha fatto con un modello di sviluppo che ha solo accentuato le disuguaglianze. Abbiamo immaginato la Milano del futuro (e sottolineato le criticità del presente) con Adamo Mastrangelo, Gabriele Rabaiotti, Alice Ranzini e Jacopo Lareno
Il vortice urbano innescato a Milano da Expo 2015 non sembra rallentare al termine di questa tornata elettorale. I piani di sviluppo emersi dai vari programmi, in particolare quelli a sostegno di Beppe Sala — che con tutta probabilità sarà ancora alla guida di Milano dopo queste elezioni — sembrano essere in linea con l’amministrazione uscente. Grande protagonista è Pierfrancesco Maran, già al lavoro in Comune da dieci anni, e dal 2016 Assessore a Urbanistica, Agricoltura e Verde. Il suo programma parla di una città più “inclusiva, internazionale, vivibile e sostenibile”, che prevede la costruzione di nuove aree verdi e di grandi investimenti nelle aree che andranno a ospitare le prossime Olimpiadi invernali 2026. Una tendenza in crescita quindi, quella di far ruotare lo sviluppo urbano attorno al perno dei “grandi eventi”, Expo prima e le Olimpiadi poi, sfruttati come espediente per modellare la città e la gestione del suo spazio.
I rischi di queste proposte sembrano essere gli stessi di cinque anni fa: una città più inclusiva solo sulla carta — e quando la linea di sviluppo riguarda nuove costruzioni ed eventi, si finisce spesso per lasciare i nuovi spazi cadere in disuso, come molti di quelli costruiti per Expo. Si continua a costruire edifici, sempre più esclusivi e inavvicinabili per la maggior parte degli abitanti della città. È di pochi giorni fa la notizia del nuovo progetto dell’architetto Stefano Boeri in zona San Cristoforo: il “Bosconavigli,” che propone di replicare l’idea del Bosco Verticale, dando vita ad un “Bosco orizzontale” — un’area residenziale di 8 mila metri quadrati rivestita da un sistema di vegetazione pensato per abbattere l’inquinamento. Lo scopo della nuova struttura dovrebbe essere quello di costituire un centro della riqualificazione per l’area. Il costo previsto per le 90 residenze è però di 8 mila euro al metro quadro, una cifra inaccessibile alla maggior parte degli abitanti della zona.
Adamo Mastrangelo, Alfredo Comito e Igor Allegrini hanno realizzato e iniziato a proiettare gratuitamente proprio in questi giorni “Nel ventre di Milano,” un documentario che va alla scoperta del volto più buio della città. Spesso ritratta come il migliore dei mondi possibili, Milano è in realtà ricca di contraddizioni sulle quali vale la pena riflettere. Gli autori del documentario l’hanno girato con l’aiuto di diverse voci narranti, che forniscono un quadro completo della città. Sono fondamentali gli interventi di Agostino Petrillo, docente di Sociologia dell’Ambiente al Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, che parla della forte mancanza di capacità della classe dirigente di mettere in pratica delle politiche per la casa coerenti, di un’amministrazione cittadina che chiama rigenerazione urbana a processi che invece assomigliano più alla gentrificazione, di interventi improvvisi su interi quartieri che costringono molti degli abitanti a spostarsi in maniera repentina. E fa notare il problema dei salari inadeguati, dell’incremento esponenziale delle disuguaglianze e delle criticità che si nascondono dietro alla retorica dei “grandi eventi.”
Se il diritto alla città costituisce — come scrive in molti dei suoi saggi il sociologo David Harvey — un diritto collettivo e non individuale, Milano non sta andando in questa direzione. La maggior parte delle operazioni di riqualificazione che vengono intraprese finiscono semplicemente per espropriare gli abitanti dei loro quartieri e darli in pasto a chi si può permettere il nuovo stile di vita imposto alla zona.
Ne abbiamo parlato anche con Gabriele Rabaiotti, Assessore alle Politiche sociali e abitative del Comune di Milano, in corsa per continuare a ricoprire la stessa carica anche nella futura amministrazione. Gli abbiamo chiesto quale futuro immagina per Milano e quali sviluppi o soluzioni per le maggiori criticità emerse in questi anni: “la città si è trasformata negli ultimi anni per impulso della proprietà privata e degli sviluppatori privati. Tutti abbiamo capito che per poter saldare la città e renderla compatta non serve curarsi del suo nucleo, che a quel punto resta comunque debole perché disgregato, ma delle sue componenti deboli, e a farlo dobbiamo essere noi del settore pubblico, non i privati. Non vanno perse le case popolari, vanno tenute e soprattutto mantenute: costituiscono un patrimonio importante, in media ne abbiamo già il doppio delle altre città italiane e dobbiamo cercare anche nello sviluppo privato di non essere timidi nel chiedere restituzione pubblica. Questo vuol dire pretendere case, servizi, spazi pubblici di valore, anche non prossimi alle aree più sviluppate ma proprio laddove sorgono quartieri più densi di elementi di fragilità.”
Il modo in cui la giunta ha lavorato fino ad oggi però ha spinto verso una direzione diametralmente opposta rispetto a quella descritta da Rabaiotti, appoggiandosi il più possibile al privato e non riuscendo a fornire la giusta attenzione ai problemi delle fasce più deboli. Su queste fragilità si sono invece concentrati Alice Ranzini e Jacopo Lareno, ricercatori in Studi urbani, che hanno appena pubblicato “L’ultima Milano. Cronache dei margini di una città”, un’inchiesta edita da Fondazione Feltrinelli. Gli autori hanno posto al centro della loro riflessione il tema dei margini, non in senso prettamente geografico, bensì indagando un concetto di margine che dialoga proprio con la dimensione della fragilità. Il loro lavoro si concentra su tre pilastri principali, nei quali hanno identificato le urgenze cruciali su cui riflettere e investire energie e risorse: casa, educazione e integrazione.
Ranzini e Lareno sono sono partiti da una domanda: il “modello Milano” viene raccontato come il migliore dei mondi possibili, ma per chi? Rispetto a quale visione di città? Hanno cercato di scardinare alcune delle retoriche che hanno alimentato la costruzione di questa immagine patinata della città: un nucleo attrattivo dall’esterno e un perno centrale per gli investimenti delle grandi aziende, che ha contato negli anni in maniera forse un po’ troppo ingenua, sul fatto che a questi sarebbe succeduto anche un effetto spillover di ricaduta sui cosiddetti margini — fenomeno che però non è avvenuto. Nonostante questo va tenuto conto anche della difficoltà di riuscire a incorporare positivamente alcuni cambiamenti all’interno di Milano che, come ricordano gli autori, è una città contraddistinta da una radicata tendenza al “mordi e fuggi”, all’accelerazione, all’abitare temporaneo da parte di studenti, che spesso poi non possono permettersi di restare, o a soggetti internazionali che attraversano la città per periodi di tempo limitati.
“Viviamo un momento storico-culturale in cui il tema del consumo e dell’auto-imprenditorialità si trovano al centro della maggior parte delle visioni e dei sistemi, ma queste cornici si trovano spesso a oscurare un vasto apparato di bisogni”, sottolinea Ranzini. Nonostante anni di amministrazione di centro-sinistra a Milano non si è costruito in alcun modo un discorso alternativo a quello dominante, il dibattito pubblico di rado verte sulle tematiche su cui gli autori si concentrano nel libro. La concentrazione su un certo status sociale e su un modo di vivere e intendere la città si è diffusa così capillarmente da attrarre cittadini che ricercano in Milano proprio un luogo in cui tutti questi sogni giungono a compimento: “I temi strettamente legati al quotidiano, alla qualità reale della vita urbana, costituiscono un grande rimosso di questi anni. Serve una coscienza collettiva più consapevole, che riesca a prendere consapevolezza di questi bisogni e a legittimarli, dimenticando tutto quell’immaginario legato alla città sfavillante, che deve necessariamente perdere forza all’interno di questo quadro, così da poterlo realmente ribaltare.”
Come sottolineano Ranzini e Lareno, però, non si riesce a parlare del fallimento di questo modello, delle sue storture, e così l’attrattività della città è ancora troppo declinata solo sul mercato immobiliare, che costituisce il suo centro nevralgico. Come scardinare questo sistema? Come rovesciare il “modello Milano”? I due ricercatori sono convinti che manchino pratiche di dissenso e dibattito sufficientemente articolate, che dal basso dovrebbero emergere in maniera più incisiva, pur nella consapevolezza che Milano è una città che difficilmente riesce a dialogare con il conflitto, e che anzi tende a opporvi sempre quella retorica per cui costituisce già il migliore dei mondi possibili. Le responsabilità politiche in questo contesto chiaramente non mancano, le opzioni radicali praticabili esistono ma sembra ci sia una mancanza di capacità, o forse volontà, di applicarle.
Diverse critiche vengono mosse anche al campo dell’educazione e alla direzione intrapresa dalla città rispetto a una sempre più netta separazione dei percorsi per estrazione sociale: si costruiscono percorsi su binari separati in cui le diverse singolarità smettono di entrare in contatto. Un discorso simile vale anche per l’integrazione: molti servizi non sono stati aperti anche ai nuovi soggetti che abitano e vivono la città, a partire dai cartelli in doppia o tripla lingua fino ad arrivare a tutta quella pluralità di settori più strutturati. Gli autori parlano fiduciosamente anche del momento di rottura in cui ci troviamo, mettendo in luce come “a causa della pandemia una quantità nettamente più evidente di criticità e disuguaglianze è venuta a galla, non è stato più possibile ignorarla. Forse stiamo arrivando sempre più vicino a una sorta di apice della crisi, che porterà anche le istanze dal basso a radicalizzarsi in maniera sempre più forte e a riuscire a incidere positivamente sui problemi.”
Nel guardare allo sviluppo della Milano futura è cruciale anche il tema delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, un ostacolo preoccupante che lascia presagire una gestione urbana vicina al modello Expo. Ranzini e Lareno dichiarano: “La questione di come si modifica la città è percepita collettivamente e viene veicolata puramente come una questione tecnica, che riguarda i tecnici. Questo inibisce la capacità delle persone di informarsi su questioni che magari sono sì, tecniche, ma hanno fortissime ricadute nel quotidiano delle persone, andrebbe ricalibrata l’opinione pubblica sul tema, riavvicinata a questioni del genere, e questa è sicuramente una responsabilità anche di noi esperti.
Sui grandi eventi il punto principale è quello di riflettere non puramente su No Expo o No Olimpiadi: bisognerebbe concentrarsi di più sui temi su cui impattano questi grandi eventi, altrimenti è solo una dialettica negativa debole. È necessario capire come contestare singole questioni, come l’edificazione sulle aree verdi o gli ex scali ferroviari, e puntare su battaglie specifiche. Gli investimenti non vanno negati in toto, andrebbe capito su cosa riuscire a spostarli, o magari anche come rallentare lo sviluppo. Sarebbero tutte soluzioni positive.”
Quale futuro, quindi, per il “modello Milano”? Un’accelerazione sulla strada che si è percorsa finora porterebbe probabilmente entro pochi anni verso una totale e completa inaccessibilità della città per la maggior parte dei suoi attuali abitanti, oltre a un sempre più netto peggioramento dello stile di vita che la stessa è in grado di offrire. Invertire la rotta investendo su casa, educazione e integrazione sembra essere l’unica via rimasta per salvare la città.
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in copertina, elaborazione the Submarine. Foto originale via Twitter, @BeppeSala