in copertina, screen grab dal video girato dal giornalista Lexis-Olivier Ray mentre veniva aggredito da un agente della polizia di Los Angeles durante le proteste dello scorso maggio 2020
Il caso della polizia di Los Angeles ha fatto scandalo, ma in realtà la maggioranza dei dipartimenti di polizia ne fa uso negli Stati Uniti
“Gli agenti non devono documentare le ricerche che conducono sui social media, il loro scopo o la giustificazione. Non sono nemmeno tenuti a chiedere l’approvazione di qualche superiore. Benché siano istruiti a non sorvegliare i social media delle persone per scopi personali, illeciti o illegali, sembrano avere però completa discrezione rispetto alla decisione di chi sorvegliare, quanto monitorare la loro attività online e per quanto tempo.”
Potrebbe tranquillamente assomigliare a una puntata, tra l’altro non particolarmente ispirata, di Black Mirror. Invece sono le istruzioni molto reali e molto generiche a cui si attengono i poliziotti del dipartimento di Los Angeles, tra i più all’avanguardia nell’uso dei social media per la sorveglianza di massa negli Stati Uniti.
Il Brennan Center for Justice della NYU School of Law ha rivelato che non solo il Los Angeles Police Department (LAPD) istruisce i propri agenti a richiedere i contatti social di tutte le persone con cui interagiscono quando sono di pattuglia, ma che tutti i dati che raccolti in questo modo vengono gestiti usando software di Palantir, la famigerata azienda fondata da Peter Thiel i cui servizi vengono usati da intelligence, polizia, e per operazioni di sicurezza private, per aggregare enormi quantitativi di dati e restituire a chi lo utilizza una descrizione precisissima di qualcuno — peso, altezza, indirizzi passati e presenti, parenti o amici, targa dell’auto e così via. Il tutto, sottolinea il Brennan Center, senza alcun controllo su come gli agenti decidano di usare questo potere.
Non contenti di avere tra le mani questo già formidabile strumento di sorveglianza e analisi, il LAPD ha recentemente investito su Media Sonar, un altro software che serve a costruire profili dettagliati delle persone e identificare i legami tra loro. Un strumento che, scrivono i ricercatori, “aumenta le opportunità di abuso ampliando la capacità degli agenti di condurre un’ampia sorveglianza sui social media.”
Il grado di controllo che emerge dalle analisi del Brennan Center sarebbe inquietante in mano a chiunque, ma lo è particolarmente se si considera la fama delle forze dell’ordine statunitensi — e quella della polizia di Los Angeles nello specifico. Fin dal 2016 la LAPD è stata colta a monitorare proteste pacifiche e legali con vari software, tra cui Dataminr e Geofeedia, raccogliendo informazioni sugli attivisti e i manifestanti che si stavano battendo contro il razzismo e le violenze della polizia grazie ai social media. Tra gli hashtag tenuti sott’occhio senza alcuna ragione valida c’erano #BlackLivesMatter, #SayHerName e #fuckdonaldtrump.
Oltre al “semplice” monitoraggio dei profili pubblici o di hashtag, la polizia usa anche soluzioni più subdole per aggirare le impostazioni della privacy delle persone che vuole sorvegliare. Oltre ad usare un informatore che sia già amico del bersaglio, ad esempio, è pratica comune creare account fasulli fingendo di essere degli attivisti per una causa comune, o degli affascinanti sconosciuti. Software come Dataminr sono stati usati in passato per accedere a post che rivelassero dove si stava tenendo una protesta in tempo reale e chi vi partecipasse. Infine, le forze dell’ordine possono avvalersi di un mandato per chiedere specifici dati direttamente alle aziende che gestiscono i servizi.
La LAPD non è certo sola in questo genere di operazione. Già nel 2013, il Dipartimento di Giustizia statunitense consigliava ai dipartimenti di polizia di mettere in campo strategie di monitoraggio dei social media per controllare le comunicazioni relative alle proteste, incoraggiandoli a creare profili falsi per ottenere informazioni.
Secondo un sondaggio del 2017, il 70% dei dipartimenti di polizia utilizza i social media per raccogliere informazioni e monitorare il sentimento pubblico. Nel maggio 2020, in relazione alle proteste per l’omicidio di George Floyd, l’FBI ha arrestato un attivista di St. Louis per “aver incoraggiato le rivolte” in alcuni post su Facebook. Un altro è stato interrogato per aver scritto un tweet ironico in cui diceva di essere “il capo degli antifa locali.” Gli agenti dell’FBI, a quanto pare, stavano setacciando i social alla ricerca di “potenziali focolai di violenza”. In un altro caso, un teenager è stato accusato di incitamento alla violenza dalla polizia di Wichita, nel Kansas, per aver postato uno Snapchat “minaccioso” in cui diceva alle persone di stare lontane dalla sua città natale.
A New York, un adolescente ha passato più di un anno in galera perché, dopo essere stato individuato come sospettato di tentato omicidio in quanto “uomo nero dalla pelle chiara e magro,” il procuratore distrettuale ha identificato i suoi like ad alcune foto raffiguranti dei presunti teppisti come prove che appartenesse a una banda criminale. In realtà, si trattava soltanto di alcuni suoi vicini di casa a cui aveva messo distrattamente like. Il ragazzo è stato assolto, ma la sua storia è esemplificativa di come “il fatto che le comunità di colore sono viste con sospetto possa diventare una profezia autoavverante, in cui una semplice interazione sui social media viene scambiata con l’appartenenza a una gang criminale.”
L’uso dei servizi di Palantir e di Media Sonar da parte delle forze dell’ordine difficilmente potrà portare a qualcosa di diverso da una stretta sull’attivismo e da queste nuove forme di profiling razziale. La polizia di Los Angeles è già nota per identificare come membri di una gang persone il cui unico crimine è sembrare qualcuno che fa parte di una gang: l’uso di software che vedono le relazioni tra le persone come piste da seguire non può migliorare la situazione.
“Un individuo identificato come membro di una gang, anche in modo impreciso, diventa un collegamento legato a una gang per tutte le persone che conosce online o meno, creando cerchie sempre più ampie di gangster sulla base di prove errate”, spiega la ricercatrice Mary Pat Dwyer. “L’enfasi della piattaforma sulle reti incoraggia anche reti di sorveglianza sempre più ampie sulla base della teoria secondo cui i dati di chiunque potrebbero essere utilizzati per risolvere un crimine futuro.”
Questa teoria, centrale nel lavoro del Department of Homeland Security fondato da Bush dopo l’11 settembre, ha giustificato negli ultimi vent’anni la raccolta, la conservazione e l’uso di una massa abnorme di dati appartenenti non solo agli statunitensi, ma anche ai migranti o ai viaggiatori passati dal suolo americano. Soltanto dal 2019, per dire, il Dipartimento di Stato ha raccolto i contatti social di circa 15 milioni di persone tra chi ha richiesto un visto per entrare negli Stati Uniti. Tra questi dati si trovano spesso e volentieri informazioni che rivelano le tendenze politiche o religiose delle persone, i loro rapporti personali, il loro orientamento. Il tutto viene spesso usato per decidere in modo arbitrario chi potrebbe presentare una minaccia in futuro, benché per il momento l’utilità di questi screening dei profili social ai fini di identificare una minaccia si sia rivelata nulla.
Tutto questo, allora, è legale? In gran parte dei casi sì, principalmente perché la legge non è al passo coi tempi per quanto riguarda l’interpretazione del concetto di privacy.
“È raro che uno sforzo di raccolta dati violi una legge sulla privacy,” ha spiegato il professor Fred Cate, membro senior del Center for Applied Cybersecurity Research. “Quando si pensa ai rischi connessi a questi sforzi, non si può pensare solo al rischio legale. Il problema più grande è la percezione pubblica.” Secondo Cate, i governi dovrebbero — al massimo — strutturare i propri sforzi di raccolta dei dati in base ai desideri e alle esigenze della cittadinanza. Tenendo al centro la trasparenza su quali dati vengano raccolti, come e perché.
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