Abbiamo intervistato Nicolò Porcelluzzi e Matteo De Giuli, autori di Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) che esce oggi per NERO Editions. Ci hanno parlato di interconnessioni, militanza, teoria e prassi e, banalmente, della fine del mondo
Esce oggi, 22 settembre, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), di Nicolò Porcelluzzi e Matteo De Giuli, edito da NERO Editions e pubblicato all’interno della collana Not. Il libro arriva dopo un percorso iniziato dai due autori nel 2017 con l’omonima newsletter, Medusa, un appuntamento bisettimanale per parlare di Antropocene, dell’impronta indelebile dell’essere umano sulla Terra e di cambiamenti climatici e culturali.
Il testo presenta un impianto originale, difficile da definire o incasellare in un unico genere. Porcelluzzi e De Giuli passano in rassegna teorie sul passato e sul futuro, casi studio tratti dall’attualità, suggestioni che emergono dal presente, e spunti da vari ambiti del sapere, per condurre il lettore all’interno di un denso viaggio verso la fine del mondo. Si passa così da una storia all’altra, da un luogo geografico all’altro, attraverso uno stile incalzante e una narrazione vivace.
Medusa parla di crisi climatica, ma fa convergere all’interno del discorso numerose implicazioni e dinamiche che spesso vengono lasciate ai margini quando si tratta del tema. Restituire la complessità del problema con cui abbiamo a che fare è indispensabile per coglierne la portata e riuscire a guardare in maniera più lucida alla realtà contemporanea.
Un elemento centrale, in questo senso, è racchiuso all’interno di una citazione di Naomi Klein riportata nel libro:“Superare la crisi ambientale significherà intraprendere un cambiamento profondo che porti a sradicare tante idee idolatrate dalla cultura occidentale non più sostenibili.” Le disuguaglianze tra ricchi e poveri, quindi, tra i paesi più ricchi e quelli più sfruttati, si trovano ancora una volta al centro del problema. Si legge in un altro frammento del testo: “L’1% più ricco del pianeta è stato responsabile del 15% delle emissioni, mentre quattro miliardi di esseri umani, i più poveri, sono responsabili del 7%, circa la metà.” Le disuguaglianze socio-economiche e la crisi climatica camminano a braccetto, nonostante questo aspetto spesso fatichi a emergere all’interno di molte narrazioni sul problema ambientale. Porcelluzzi e De Giuli rimettono al centro questo rapporto, oltre a riflettere sull’educazione scolastica, sul potere delle storie, sul nostro rapporto con la “natura selvaggia” e su una pluralità di altri elementi di valore all’interno di questa dimensione catastrofica che è il contesto odierno.
Abbiamo chiacchierato con loro di questi temi in occasione dell’uscita del libro.
Medusa è un testo che presenta la peculiarità stilistica di intersecare alcuni elementi più vicini alla letteratura con altri più tipici della saggistica. Nel libro parlate di come, nel tempo, la natura sia stata consegnata alla scienza restando preclusa alla cultura. Il vostro è un tentativo di riavvicinarle?
Nicolò Porcelluzzi: È una distinzione che per noi non esiste, è una questione di sguardi. La struttura e la lingua del libro sono dirette conseguenze dello spirito che ha dato via alla newsletter. Abbiamo seguito due percorsi diversi, prima di iniziare questo progetto anni fa, ma nel 2017 eravamo arrivati allo stesso punto: si condivideva, allora come adesso, la necessità di parlare e scrivere dell’emergenza in atto — anche, va detto, per non uscirne pazzi —, e il desiderio di aiutarci come scrittori. Rispetto a quest’ultimo punto: se oggi mi sembra a volte di avere raggiunto una minima lucidità, che per fortuna quando capita mi abbandona ancora, allora mi sentivo circondato da qualcosa di simile a una forma di estasi, una lettura psichedelica del reale che mi portava a mescolare il racconto dei gasdotti a quello dei poemi russi, l’invisibilità di internet e la tela del ragno. Perché sono e non sono la stessa cosa, attributi della nostra esperienza sul pianeta. Per scriverne ci voleva tempo e un compagno di strada.
Matteo De Giuli : Non abbiamo mai pensato però che avessimo una missione. Ora con il libro tra le mani la cosa che mi sembra più evidente è proprio questa: Medusa non ha un obiettivo, non assolve a un compito, parla di scienza e letteratura e di molte altre cose, ma non è un saggio canonico, né un libro divulgativo. Non ha neanche una tesi forte, o forse ne ha molte, ed è pieno di contraddizioni, di dubbi, a me sembra più di tutto un diario delle nostre letture, esperienze, angosce, il racconto di due scrittori che cercano di prendere le misure a un tema ciclopico e inafferrabile come i cambiamenti climatici. Ma è un libro che abbiamo scritto direi per motivi istintivi, perché erano temi che ci interessavano, non per uno slancio etico, e infatti Medusa non è venuto fuori come un libro ortopedico, prescrittivo. Una volta andati in stampa ci siamo accorti poi che tra i tantissimi autori, romanzieri e saggisti che citiamo nel libro, il nome che torna di più è quello di un regista, Werner Herzog. Non è un caso, perché Herzog nei suoi documentari ha proprio quel tipo di sguardo che ci interessa, sospeso a metà tra indagine della realtà (storia della scienza, storie di scienziati, racconti naturali) e una ricerca mistica, poetica, che gli permette di raccontare le vicende umane come un antropologo venuto da un’altra epoca, un altro pianeta.
Un tema ricorrente tra le vostre pagine è anche quello del raccontare, quale valore conferite alla dimensione del racconto in questo contesto da fine del mondo?
MDG: L’essere umano è un animale che racconta storie, i racconti danno senso alla realtà, le società umane si uniscono attorno a narrazioni particolarmente efficaci. Ci raccontiamo delle storie per vivere. Oggi bisogna affrontare però un grado di complessità in più rispetto a quelli a cui siamo stati abituati per secoli, perché la questione climatica mette in crisi le nostre facoltà di percezione, di elaborazione e di racconto, e quindi anche di reazione. Da questo punto di vista si può dire che c’è un bisogno più che mai urgente di raccontare storie che ci facciano comprendere la gravità della crisi climatica, che ci facciano interessare, che ci portino alla ribellione— ed è compito dei politici, degli attivisti, dei giornalisti trovarle.
E gli scrittori, e i romanzieri? Una delle spinte che quattro anni fa ci ha portato ad aprire la newsletter come laboratorio di scrittura è stata la lettura della Grande cecità, il libro in cui Amitav Ghosh lamentava il fatto che la letteratura mainstream e realista si disinteressasse della crisi climatica, nonostante la crisi climatica fosse già da tempo la realtà più urgente di tutte, la storia che più di ogni altra definisce la nostra contemporaneità. Ci suonava come un’accusa sacrosanta. Allo stesso tempo però ci è sempre sembrata evidente anche la povertà di molta letteratura “civica”, quella che fa da ancella alle questioni sociali senza aggiungere nessuna ambiguità, nessuna deformazione al racconto, perché nasce in buona sostanza da un calcolo, quello di fare un romanzo “buono”, utile, ed è troppo spesso cattiva letteratura, sono brutti romanzi che diventano meri prodotti di mercato. Quando ci siamo trovati a ragionare su questo non abbiamo cercato una soluzione chiara, e nel libro non abbiamo scritto un manifesto; è anzi, forse, uno dei punti che lasciamo più aperti.
NP: Di storie ormai, come di immagini, ce ne sono già molte, direi troppe. Forse c’è anche una certa urgenza di ecologia delle storie, di tutela del racconto. In fondo però, che si tratti di una fiaba fenicia o di un fumetto Marvel, ogni storia vive e rivive nel confronto con chi gli si para davanti, ha infinite possibilità di riuscita e fallimento. Il racconto è una tecnologia che ci permette di sopravvivere, uno strumento sempre riadattatosi nei millenni inseguendo lo stesso scopo: scambiarsi, in un telefono-senza-fili che è un po’ drammatico e un po’ buffo, il cosiddetto sapere condiviso, la cosiddetta cultura, i trucchi per fregare la morte, o per farsene una ragione. Dopo tutte le storie che ci siamo raccontati sarebbe curioso liberarcene oggi, in tempi di trauma collettivo.
La cultura come macchina del tempo è un’idea che mi diverte. Il fatto è che viene spesso guidata verso il passato, verso i fatti morti —osa che ha perfettamente senso —; il rischio è dimenticarsi che funziona anche nell’altro verso, o prendere poco sul serio questa sua — si fa per dire, non in senso utilitarista —funzione. Per esempio: ci si mette d’accordo e si decide che “la fantascienza” è un giochetto, un genere. Fino a quando diventa la matrice del racconto di un’epoca intera, il linguaggio egemonico, ecco. E lo dico senza esserne un estimatore, ma un simpatizzante magari, a volte poco sopra la soglia di insofferenza. Sono discorsi che intrappolano purtroppo, soprattutto quando penso a Medusa, dove proviamo a costruire e decostruire ogni certezza, o almeno pregiudizio, come per esempio l’esistenza di un tempo lineare.
Oppure, tornando alla questione “utilitarista”. Nonostante l’impulso di raccontare, in cui individuo tutto quello che ho scritto qui sopra, non penso nemmeno che l’arte letteraria debba avere uno scopo, servire a qualcosa. Però il racconto è qualcosa di più ampio: nel libro scriviamo che, per esempio, “lo spirito delle religioni è il racconto, e il marmo del dogma si scava nella credulità per il racconto: più a fondo si scava, più è pura la pietra. E così vale per i regimi dittatoriali, così vale per la politica di oggi, che — affidandosi al mondo dello spettacolo, e non il contrario — è diventata materia da tifoseria”. E poi: “ ‘la realtà del mondo’ è un’espressione senza significato, è un’invenzione letteraria”. Perché allora non modificarla grazie a qualcosa che non esiste?
Emerge in vari passaggi del libro un altro elemento centrale rispetto al rapporto uomo-natura: l’esistenza di concezioni comunemente radicate, ma profondamente fallaci, nel nostro modo di guardare alla natura.
La “natura selvaggia e incontaminata” non può esistere se è una scelta umana quella di tutelare quel luogo in una specifica maniera, o di lasciarlo esistere indipendente dall’intervento umano. Se prendiamo ad esempio il campeggio, spesso scelto come meta di villeggiatura perché consente di “stare più a contatto con la natura,” nella maggior parte dei casi però la tendenza dell’uomo è di ricostruire in quel luogo una dimensione il più possibile vicina all’ambiente domestico. A quel punto sarebbe insensato affermare che quel luogo consente maggior contatto con la natura rispetto alla consueta dimora. Quanto pensate siano sono dannose queste visioni del rapporto con la natura?
MDG: In un passaggio del libro raccontiamo proprio l’invenzione del concetto di wilderness e l’istituzione dei grandi parchi naturali. Sono iniziative apparentemente lodevoli, inattaccabili anzi, — chi può essere contro un parco naturale?—, che rischiano però di “ghettizzare” l’interesse per la conservazione, di aumentare l’idea che ci possa essere una separazione netta tra umano e non umano. La crisi climatica e la pandemia ci ricordano invece la nostra inestricabile continuità con il mondo naturale, vegetale e animale. Creare aree protette non basta più, non è mai bastato.
Ma esistono molti altri cortocircuiti concettuali di questo tipo, e spesso nascono proprio dal fatto che quando diciamo natura in realtà intendiamo proiezione culturale della natura. Basta pensare al modo in cui nella retorica di tutti i giorni manipoliamo proprio il termine “naturale”: diciamo cibi “naturali”, rapporti sessuali “naturali”, comportamenti “naturali” quando in realtà il più delle volte intendiamo cibi tradizionali, rapporti tradizionali, comportamenti tradizionali. Tradizionali e quindi culturali, non naturali. Un discorso speculare si potrebbe fare per il termine animale, bestiale, con accezione negativa. È solo il rovescio della medaglia, a seconda che ci si appelli a un immagine della natura come luogo edenico di armonia e perfezione, oppure come il suo opposto, come teatro di scontro, gorgo di sopraffazione e violenza. Sono due visioni polarizzate, entrambe contemporaneamente vere, quindi entrambe false.
NP: Ho la sensazione che nell’ambito delle costruzioni sociali, delle idee ricevute, tutto sia modificabile, anche all’interno della stessa generazione. Già parlare di campeggio, un paio di secoli fa, sarebbe stato assolutamente incomprensibile: e così, se il sole continua a picchiare come faceva sulla mia tenda questa estate, anche tra due secoli. Per dire: già il tuo esempio è mobile, e già la mia idea di cosiddetta Natura è diversa da quella dei nostri nonni (soprattutto se contadini), o di chi nasce in questi giorni (soprattutto in città). Altra lunga questione, e delicata: l’idea di una natura incontaminata che si apre al nostro sguardo, in tutto il suo indicibile mistero, mi sembra abbia toccato il suo vertice nella parentesi Romantica. E quella parentesi intellettuale, culturale, lo dico anche scherzando, è stata la più egoriferita di tutta la storia Occidentale, tutta quella retorica intorno al genio: meglio farne a meno. Potremmo scrivere un altro libro solo da questa domanda.
Per esempio: “l’incontaminato”, come fenomeno, non esiste. Nel microscopico, e quindi nel macroscopico. Questo paradosso di una presunta wilderness insomma è soltanto il sintomo più vistoso della miopia disastrosa che tormenta la nostra percezione di tutto quello che è non-umano.
Il collegamento tra crisi climatica e sistema politico-economico non si trova spesso nel dibattito portato avanti da molti dei movimenti per l’ambiente sorti negli ultimi anni. Pensate che potranno portare degli elementi di cambiamento tangibili rispetto alla situazione attuale?
NP: Non sono poi così d’accordo sulla premessa della domanda, o meglio: introdurrei dei distinguo più precisi per aiutarci a isolare i casi. È vero, ci sono molti movimenti locali e informali che magari nascono da un’emergenza precisa, un’aberrazione nell’equilibrio ecologico di paesi sonnacchiosi, falde inquinante o cose del genere, i vari Not In My Backyard; se si va a scavare nel locale, si trovano entrambe le posture — chi è ultra-politicizzato e chi non lo è —, unite nello stesso scopo. Il problema è così profondo e distribuito che tenderei a preferire delle soluzioni tout court, al di là di alcune dissertazioni teoriche. Mi spiego meglio: se si rinunciasse per sempre alla Tav e si lasciassero in pace gli abitanti della Val Susa sarei felice, a prescindere dalla consapevolezza anticapitalista degli attivisti che hanno raggiunto il loro obiettivo. Detto questo: a livello di divulgazione, di catechesi ecologista e movimentista ecco, si può andare lontani soltanto accompagnando l’azione allo studio, tempo fa si diceva “teoria e prassi.”
Ogni volta che ci troviamo a parlare di attivismo sento l’urgenza di precisare l’informazione più importante, cioè che non siamo attivisti, almeno inteso nell’accezione radicale. Non ancora, almeno.
Nel libro viene elencata una quantità strabordante di termini, tutti utilizzati per definire il cosiddetto Antropocene; quale pensate sia il più attinente?
MDG: Anche qui non abbiamo molte certezze. Di sicuro Antropocene è ormai diffusissimo. È una parola potente, ma ha una strana luccicanza, è un termine che attrae quando invece dovrebbe repellere. Si fanno mostre, manifestazioni, libri, magliette, programmi tv sull’Antropocene — e forse anche per questo la nostra newsletter ha avuto successo. In generale questo va benissimo, perché è un tipo di riflessione che sarebbe dovuta nascere molto prima, decenni fa. Ma a volte mi sembra che ormai Antropocene sia un termine che viene utilizzato senza più problematizzarlo, viene estetizzato anzi, con il rischio ulteriore di consumarlo, di farlo passare di moda.
Il vostro sottotitolo parla di un mondo che, per come lo conosciamo, sta finendo, possiamo ancora salvarci?
NP: A chi corrisponde quel noi? Se intendiamo la parte più ricca del pianeta (non alludo a jet privati o attici, ma a una sanità funzionante, acqua potabile, istruzione obbligatoria, supermercati pieni) sì, per qualche generazione la nostra sopravvivenza sarà più semplice di quella di chi per caso nasce nelle nazioni più povere, o ai margini di quelle più ricche, al centro delle discriminazioni, eccetera.
Già da prima della pandemia, agli incontri, alle presentazioni, ci trovavamo a parlare di fine del mondo “discreta e localizzata,” insomma distribuita in giro per il pianeta, diseguale, subdola.
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In copertina: foto dominio pubblico di W.carter. All’interno: foto CC-BY Francesco Crippa