L’eterna rinascita dei Nu Genea

I Nu Genea si sono imposti nel mainstream nel 2018, con l’album Nuova Napoli. Sono tornati dopo tre anni di silenzio con un nuovo nome e un nuovo singolo: li abbiamo intervistati e abbiamo parlato di Africa, di musica napoletana e di come si fa a rimanere freschi

L’eterna rinascita dei Nu Genea

I Nu Genea si sono imposti nel mainstream nel 2018, con l’album Nuova Napoli. Sono tornati dopo tre anni di silenzio con un nuovo nome e un nuovo singolo: li abbiamo intervistati e abbiamo parlato di Africa, di musica napoletana e di come si fa a rimanere freschi

Quando ascolti la musica di Nu Genea, la prima cosa che ti domandi è quante persone stiano dietro tutti quei suoni, e quello che immagini ascoltando i loro dischi è un collettivo di musicisti numerosissimi, matti e senza volto, un agglomerato XXL di musicisti jazz e cantanti neomelodici, capitati per sbaglio nello stesso studio di registrazione: Pino Daniele meets Sons of Kemet. Si tratta in realtà di due persone soltanto, che mettono in ogni disco le musiche del mondo e di qualsiasi epoca, per frullarle insieme e creare cose nuove che assomiglino il più possibile alla musica che piace a loro.

Per diversi anni hanno suonato soprattutto musica elettronica, vivendo prima a Napoli e poi a Berlino. A Berlino hanno prodotto uno dei dischi di Afrobeat Makers, l’ultimo progetto musicale di Tony Allen, un gigante, inventore dell’afrobeat che suonò con Fela Kuti. Dopo quel disco, hanno pubblicato con una piccola etichetta due raccolte di musica napoletana scomparsa: Napoli Segreta, e per NG Records, Nuova Napoli. Nell’ultimo anno hanno scritto e registrato un nuovo album che uscirà presto e che hanno presentato con il singolo “Marechià,” hit radiofonica ascoltata su tutte le terrazze affacciate sul Mediterraneo, senza bisogno dei gorgheggi delle G.I.I. (Grandi Interpreti Italiane) né rapper di mezzo. Tutta la linea vocale si basa su una suadente voce francese. Quest’estate hanno girato l’Italia per suonare e per far ballare. Li abbiamo incontrati prima di sentirli suonare a Jazz:Re:Found, nel Monferrato.

Quello che mi interessa chiedervi, per prima cosa, è la storia del vostro fare musica. Come vi siete incontrati, e come avete iniziato a fare quello che facevate — la techno — per poi finire a fare quello che fate oggi

Lucio: È stato in effetti un processo molto lungo, che è iniziato quando io e Massimo producevamo musica elettronica, senza conoscerci. A un certo punto, eravamo due piccoli “talenti” (giovani, di Napoli, ci chiamavano “gli astri nascenti”: Massimo aveva sedici anni e io diciotto) e iniziavamo a fare produzioni che avevano un po’ di risonanza all’estero. A quel punto, Massimo mi scrisse su MySpace, diventammo amici e quando nel 2010 tornò da Barcellona iniziammo a fare musica insieme. Ci siamo resi conto che stava uscendo qualcosa che non era più strettamente “techno,” e così abbiamo continuato a sperimentare e a spingere sui confini del genere. Abbiamo spaziato tantissimo, finché non siamo arrivati al progetto Nu Guinea, che poi è diventato Nu Genea. Inizialmente, uscimmo sull’etichetta di Massimo Early Sounds, con un disco fatto in pochissimo tempo. Quando poi ci siamo trasferiti a Berlino, siamo andati verso una musica sempre più organica, fatta con strumenti suonati e non sintetizzati, meno campioni e più suoni.

Voi suonate?

Lucio: Io suono le tastiere, e componiamo insieme, anche se nell’ultimo disco Massimo ha fatto un paio di assoli, si è impratichito. Siamo partiti dall’elettronica, e poi abbiamo proseguito cronologicamente all’indietro verso suoni del passato, finché non siamo arrivati a Nuova Napoli, che contiene vere e proprie canzoni. Anche “Marechià” è così. Forse è proprio Nuova Napoli che ci ha dato l’input di comporre vere e proprie canzoni, anche perché ha avuto un successo che non ci aspettavamo: quasi per caso durante una jam session ci siamo messi a comporre in napoletano e ci siamo resi conto di quello che potevamo fare di nuovo. Avevamo molta nostalgia di casa.

Massimo: Un’altra cosa importantissima, secondo me, è che quest’ultimo progetto ci lascia la possibilità di spaziare tra vari generi. La techno, l’house devono rispettare un certo canone, alcuni riferimenti, per potersi dire tali. Negli anni però facendo ricerca, anche ascoltando musica appartenente a macro generi e di provenienze geografiche differenti, ci siamo resi conto che ogni suono, da parti diverse del mondo, ha le proprie specificità. Vale per la musica napoletana come per la musica delle Antille o del West Africa: la tradizione si mescola con gli elementi della musica del momento,di un genere specifico. Riusciamo a fare continuamente musica nuova, ed è la ragione per cui questo progetto va avanti da tanti anni, mentre prima volevamo subito cambiare, perché sentivamo di avere esaurito le possibilità e le cose da dire.

È un approccio molto contemporaneo al fare musica, e mi viene spontaneo pensare a un paragone con alcuni generi nuovi — la trap in Italia 5 anni fa era una cosa freschissima —  che nel ripetersi di stilemi continuo invecchiano molto prima. Mi chiedevo se per voi la novità vada sempre insieme al recupero della tradizione, delle cose scavate, dimenticate. 

Massimo: Per me sì. Non abbiamo mai cercato di essere al passo coi tempi, ma viviamo in questi tempi, e allora ci influenzano. Per forza. Non potremmo mai emulare perfettamente la musica napoletana degli anni settanta o ottanta e fare dei revival. Non ci ha mai nemmeno interessati farlo. Nella nostra musica finiscono dei pezzi del presente, e credo che siano queste due cose insieme che piacciono a chi ci ascolta. Non abbiamo mai cercato di fare qualcosa di esclusivamente moderno, o di esclusivamente vintage.

Le vostre influenze, soprattutto nel passato, chi sono?

Massimo: Ovviamente, vivendo a Napoli, abbiamo ascoltato tantissimo Pino Daniele. Poi bossa nova, jazz, musica dall’estero eccetera. Anche nei nostri dj set cerchiamo di condividere le nostre influenze, dalla musica napoletana scomparsa a quella del Centro Africa… Ci attira la musica che fece poco successo e che fu poco capita al proprio tempo, che magari era troppo d’avanguardia.

Lucio: Le band minori! Un gruppo che fa disco music ma alle Barbados, per esempio, ha più carattere, è interessante.

Massimo: Alle Barbados, e a Trinidad de Tobago, negli anni Trenta e Quaranta per esempio è nata la musica Calypso, che poi si è mischiata con il jazz e le influenze più recenti negli anni settanta. Nomi come “Boogsie”, il suonatore di still drum, Charmaine Forde, Nadie La Fonde, “Nappy” Mayers… O un artista nigeriano, famosissimo — persino Frank Ocean ha fatto una sua cover — come Steve Monite, che fece un disco veramente pop che però all’epoca vendette pochissimo. Anche moltissima musica araba: Napoli sta al centro del Mediterraneo, per cui la musica come la lingua hanno preso forma con tutte le influenze del Mediterraneo, compreso il mondo arabo nel suo insieme. Di recente, abbiamo fatto un djset di sole musica araba e musica napoletana.

Frank Ocean canta Steve Monite

Un’altra cosa che m’interessa, ricollegandomi alla questione che citavate prima, riguardo alla nostalgia di casa propria, è quanto il rapporto con una città influenzi la composizione di musica. 

Lucio: Per noi Berlino sarebbe stata perfetta, se avessimo voluto fare techno! Ma siamo arrivati e, alla fine, volevamo fare tutt’altro. La città per noi è stata l’occasione di partire da zero, dare inizio a progetti nuovi. Ci siamo resi conto che quello che potevamo dire era molto più ampio, e non volevamo limitarci soltanto alla techno. Quando il nostro disco Nuova Napoli ha venduto molto più di quello con Tony Allen, mentre noi l’avevamo pensato come un progetto “minore”, abbiamo capito che forse questo aspetto delle nostre radici, cantare e scrivere in napoletano, poteva rendere la nostra musica più ricca, più interessante. Siamo stati fortunatissimi a nascere a Napoli, che ha una storia ricchissima, non solo musicalmente. Quello che distingue un artista da un altro è la capacità di dire cose che gli altri non hanno.

Massimo: Anche per questo, l’anno scorso abbiamo deciso di cambiare nome. Nu Guinea è un nome esotizzante, e quel fascino estremo per i tropici e la tradizione esclusivamente di alcune aree del mondo non ci rappresenta totalmente. Abbiamo ancora, avremo sempre, interesse per la musica di tutto il mondo, ma quello che ci interessa è metterla insieme e riproporla: Nu Genea è un nome ricchissimo, che parla di nuovi inizi.

Ho letto il vostro post, con cui avete spiegato la ragione per il cambio di nome. 

Massimo: Per noi più di tutto è importante che sia la musica a trasmettere un’emozione, è tutto lì dentro.

Volevo chiedervi, in chiusura, se tra le cose che vi influenzano nel fare musica, le cose che vi piacciono, ci siano anche altri aspetti, la pittura, il cinema… 

Massimo: Tutto ci influenza, ma non nel modo di: abbiamo fatto un pezzo pensando a questo film, ne abbiamo fatto un altro pensando a quell’altro.

Lucio: Penso che sia un modo di influenzare più indiretto, vedere una mostra di pittura, o il concerto di un artista che fa un genere musicale completamente diverso dal tuo. Qualsiasi cosa, anche vedere una Biennale di Architettura, in qualche modo tutto quello che ti arricchisce viene tramutato in musica.

L’ultimo disco è stato composto durante il lockdown?

Lucio: Ci abbiamo lavorato sì, ma con alcune cose avevamo iniziato già prima. Per certi versi è stata una fortuna, perché abbiamo avuto molto più tempo per curarlo, aggiungere altre cose che prima non esistevano.

Massimo: Comunque, a un certo punto ci siamo resi conto che non potevamo non provarlo davanti alle persone. Non puoi renderti conto se la tua musica funziona o meno, finché non la fai sentire a qualcun altro.  L’ispirazione più grande viene ancora dal suonare con il pubblico, ed è ancora più evidente avendo ripreso a farlo dopo tanti mesi di interruzione. So che ci sono artisti che compongono in solitaria: per noi è impossibile. Ancora più che altre forme d’arte, per noi l’influenza maggiore è sempre questa. Dopo un anno e mezzo di pandemia, trovarci davanti a un concerto degli altri esseri umani ci ha fatto dire: aaah.

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in copertina: foto via Facebook