La tendenza a deridere i no vax sul letto di morte è solo l’ultimo effetto della colpevolizzazione degli individui nella gestione della pandemia. Ma serve a qualcosa?
La contrapposizione tra no vax e pro vax è da mesi al centro della speculazione mediatica e del dibattito social. Una delle ultime tendenze è la macabra conta dei morti per Covid-19 che si convertono sulla via dell’intubazione, rinnegando la proprie posizioni no vax. In Italia ci sono i puntuali aggiornamenti del virologo Roberto Burioni su Twitter (qui solo un esempio), cui fanno seguito commenti e ricondivisioni che implicano – più o meno direttamente – che il defunto in questione se la sia cercata. Negli Stati Uniti il discorso ha toni ancora più accesi, soprattutto perché tra le vittime più recenti ci sono noti commentatori di estrema destra, negazionisti della prima ora.
La condivisione di questi contenuti sembra avere lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza del vaccino, ma la punta di soddisfazione che emerge, nemmeno troppo velatamente, dietro a molti commenti dice una cosa diversa. Dietro all’atteggiamento di death shaming c’è piuttosto una rabbia che ha bisogno di essere sfogata, che si accompagna al retaggio irrazionale che vede nella morte per malattia una forma di punizione morale.
I pro vax sono arrabbiati, ed è comprensibile. Negli ultimi due anni abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo un trauma, più o meno grave e più o meno consapevole. È ancora troppo presto per capire pienamente come e quanto questa situazione logorante abbia avuto impatto sulla nostra psiche. Quel che è certo è che più la situazione si protrae più la sopportazione diminuisce. È quindi naturale la frustrazione nei confronti di chi, ora che c’è uno strumento utile per diminuire il contagio, sembra sputarci sopra senza mezzi termini.
Questo trincerarsi dietro fazioni avverse, però, non fa che polarizzare uno scontro già grandemente sovradimensionato e finisce per produrre risultati che sono l’opposto di quelli desiderati.
Parte del fastidio nei confronti dei cosiddetti no vax è legato al fatto che la loro resistenza è associata a un certo complottismo da tastiera e un’informazione raccogliticcia che viaggia sui social e nelle chat di Telegram. Ma, come spiega bene Valigia Blu, complottisti, negazionisti e antivaccinisti esistono ben prima di Facebook e degli aggregatori di fake news. Se per essere no vax si è dovuto per forza attendere la fine del Settencento e l’invenzione del vaccino, il negazionismo nasce con le prime epidemie, “perché pare che sia una reazione incredibilmente umana, quando ci si trova nel mezzo di una tragedia immensa come è una pandemia, reagire nel modo più irrazionale ma forse più rassicurante: negare che il problema esista.”
Esclusa una minoranza di no vax convinti, nella maggior parte dei casi chi esita a vaccinarsi ha semplicemente paura, degli effetti collaterali, del controllo sociale o di tante altri fattori che affondano le radici nella propria storia personale. Qualunque siano le ragioni, è chiaro che insultare, deridere o implicare che la morte possa essere una conseguenza meritata sia una strategia pessima per far cambiare idea a qualcuno.
Chi ha dimestichezza con le teorie argomentative parla di backfire effect, effetto “rinculo,” che porta chi subisce una controargomentazione particolarmente aggressiva a trincerarsi ancora di più nelle proprie posizioni.
Da questo punto di vista molti media e paladini del vaccino hanno avuto un ruolo fondamentale, offrendo a chi si mostrava timoroso l’occasione di nobilitare i propri dubbi arroccandosi dietro supposte ragioni ideali (o pseudoscientifiche) e dando loro l’impressione di fare parte di un gruppo molto più vasto, coeso e “ribelle” di quanto non sia in realtà.
Il fatto di dipingere i non vaccinati come un unico blocco di irriducibili non fa che fissare gli individui in una categoria ben precisa e dai confini molto netti, rinchiudendoci a forza anche chi, in realtà, non esclude affatto di vaccinarsi. Ne è una dimostrazione il trattamento riservato a chi cambia idea.
Questa, a ben pensarci, è la naturale evoluzione di un atteggiamento che durante tutta la pandemia ha puntato a colpevolizzare prima di tutto l’individuo. Lo stigma si è di volta in volta abbattuto sui runner, i rider, chi indossa la mascherina lasciando scoperto il naso, chi non riesce a rinunciare allo spritz, chi affolla i Navigli e chi fotografa chi affolla i Navigli. Negli Stati Uniti il pubblico ludibrio si è scatenato anche nei confronti di chi è stato vaccinato per primo, in particolare la categoria delle persone in grave sovrappeso, considerate più a rischio ma che per alcuni erano causa del proprio male e quindi immeritevoli di “saltare la fila.”
Tutto ciò ha a che fare con una cultura che mescola l’antica idea di malattia come colpa (e punizione) al concetto più calvinista di malattia come fallimento personale. Ma quando si ha a che fare con una pandemia ragionare a livello così individuale non ha molto senso.
Mentre ce la prendiamo coi nostri vicini di casa che fanno fallire il piano vaccinale, i paesi più ricchi, Italia compresa, si stanno organizzando per la terza dose mentre nei paesi a basso reddito solo l’1,8% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino. Per Mike Ryan, direttore del programma di emergenza sanitaria dell’OMS, distribuire un’altra dose nei paesi ricchi equivale a “fornire giubbotti di salvataggio a persone che già ne indossano uno, mentre lasciano gli altri sprovvisti di protezione.” Immersi nella cassa di risonanza di un’informazione di scarsa qualità, ci stiamo dimenticando che l’obiettivo verso cui incanalare la nostra rabbia è alla portata ed è un altro: espropriare i brevetti dei vaccini.
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in copertina: elaborazione da foto di dominio pubblico (Navy Medicine)