cover-haqqani-afghanistan

in copertina: Anas Haqqani, via Twitter @SaeedKhosty

Quattro giorni dopo la conquista di Kabul, i talebani cercano di reprimere le prime proteste contro il loro dominio, e annunciano ufficialmente la rifondazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Intanto, alle autorità europee interessa solo trovare un modo per fermare i rifugiati

Ieri era la Giornata dell’indipendenza afgana, fissata il 19 agosto per ricordare il trattato di Rawalpindi del 1919, in cui gli inglesi riconobbero l’indipendenza del paese. 102 anni dopo il trattato e dopo quattro giorni di occupazione di Kabul, il portavoce talebano Zabiullah Mujahid ha formalmente annunciato la rifondazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Il gruppo militante ha celebrato la giornata dell’indipendenza dicendo di aver sconfitto “il potere arrogante” degli Stati Uniti. Non ci sono ancora molti dettagli sulla forma di governo che sarà assunta dal nuovo Emirato, ma secondo dichiarazioni di Wahidullah Hashemi, un membro della leadership talebana, in questo momento si sta contrattando per la formazione di un consiglio che governi il paese sotto la guida di Hibatullah Akhundzada, il leader del movimento.

Durante la giornata di ieri le proteste iniziate a Jalalabad e a Khowst si sono espanse ad Asadabad e fino a Kabul. I talebani hanno risposto con violenza: ad Asadabad Reuters parla di più morti uccisi dalla fuga precipitosa dei manifestanti quando degli uomini armati hanno iniziato ad aprire il fuoco sulla folla; a Kabul la situazione è rimasta critica tutta la giornata, con il frequente rumore di colpi di armi da fuoco e l’uso diffuso di fruste da parte dei miliziani — qui ripreso in video da CNN. Dopo le tensioni di questi due giorni, un report confidenziale RHIPTO presentato alle Nazioni Unite e filtrato ai media dice che i talebani starebbero andando “porta a porta” per cercare sostenitori del governo precedente, in un’azione opposta ai toni concilianti tenuti dal movimento per il pubblico internazionale. Ieri hanno raggiunto i media di tutto il mondo le immagini sconvolgenti delle donne che cercavano di passare ai militari occidentali i propri neonati oltre il filo spinato della recinzione, mentre in tutta la zona, la violenza e i colpi di arma da fuoco sono ormai una presenza costante.

Mercoledì i talebani hanno incontrato le prime proteste contro il loro dominio sull’Afghanistan, con manifestazioni corpose a Jalalabad e a Khowst. In entrambe le proteste, a cui hanno partecipato in molti, i manifestanti hanno cercato di sostituire le bandiere talebane con quelle del governo precedente. A Jalalabad ci sono riusciti, ma degli uomini armati hanno risposto immediatamente aprendo il fuoco: mentre scriviamo risultano almeno due persone morte e 12 ferite. Anche a Khowst le bandiere dell’Afghanistan erano numerose, e sono confermate violenze contro i manifestanti, ma sembra non ci siano stati morti e feriti gravi. La repressione delle proteste è una prima crepa nella nuova immagine del movimento, che vorrebbe dimostrare la propria affidabilità agli interlocutori occidentali. Ciononostante, il dialogo per la formazione del nuovo governo procede spedito. Ieri Ashraf Ghani, il presidente in fuga — che si trova ora negli Emirati Arabi Uniti — è apparso in un video su Facebook, in cui ha espresso il proprio sostegno alla trattativa con i talebani e ha dichiarato di stare discutendo come tornare nel paese. Ghani non gode più di un profilo internazionale di rilievo, però: commentando la sua fuga, la vicesegretaria di Stato statunitense Wendy Sherman ha dichiarato che l’ex presidente “non è più una figura in Afghanistan.”

Negli Stati Uniti, la tensione attorno a Joe Biden resta molto alta: Vivian Salama ha letto dei cablo riservati del dipartimento di Stato in cui i funzionari dell’amministrazione venivano preavvisati che il governo afgano non avrebbe retto contro l’avanzata dei talebani. Le informazioni — comunque ottimistiche rispetto al tracollo della settimana scorsa — sono state apparentemente ignorate dallo staff di Biden. Una cosa che l’intelligence statunitense al momento non sembra in grado di sostanziare: quante armi del proprio esercito sono finite nelle mani dei talebani, che potrebbero rapidamente costituire un problema alla sicurezza in molti paesi della regione, se i talebani decidessero di rivendere parte del bottino ad altri gruppi armati.

In Italia ieri c’è stata l’occasione di fare polemica attorno alle dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio Conte, che, alla presentazione di un libro a Ravello (Salerno) ha detto che l’occidente dovrebbe “mantenere uno stretto dialogo con i talebani,” il cui regime “appare, almeno a parole, su un atteggiamento abbastanza distensivo.” Perfino Di Maio ha preso le distanze dalla posizione di Conte, dicendo che “dobbiamo giudicare talebani da azioni, non parole.” Anche Enrico Letta ha commentato le parole di Conte con scetticismo, dicendo al TG3 che è lecito “attrezzarci al peggio” per la situazione in Afghanistan — “ovviamente se la situazione migliorerà sarà tutto di guadagnato.” In realtà le dichiarazioni di Conte non sono particolarmente distanti dalla linea ufficiale dell’Unione europea: Josep Borrell tre giorni fa aveva già dichiarato che il blocco dialogherà con i talebani per “evitare un disastro umanitario e migratorio” (enfasi nostra). La preoccupazione centrale dell’Ue resta infatti quella di dover gestire un forte flusso migratorio: ieri il presidente turco Erdogan ha dichiarato che i paesi europei dovranno “prendersi la responsabilità” dei migranti, e che il suo paese non ha intenzione di diventare “il magazzino dei migranti dell’Europa.” Per quanto l’Europa vorrebbe, però, la crisi umanitaria in Afghanistan non si può ignorare: ieri Amnesty ha pubblicato una nuova indagine in cui riporta di una strage di nove uomini hazāra da parte dei talebani, che si sarebbe consumata tra il 4 e il 6 luglio in un villaggio del distretto di Malistan: sei uomini sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco, tre sono stati torturati fino alla morte.

Intanto, a Kabul, il negoziatore talebano Anas Haqqani ha incontrato l’ex presidente Karzai e Abdullah, che si era occupato della trattativa di pace prima della vittoria talebana. Fonti di TOLOnews sia presso i rappresentanti del movimento talebano che nella politica afgana ripetono il concetto, già avanzato nei giorni scorsi, di un governo “inclusivo,” che cerchi di rappresentare tutte le componenti del paese. I leader talebani hanno concesso “la grazia” a tutti i funzionari del governo, dicendo che “non c’è bisogno che nessuno lasci il paese.” La situazione all’aeroporto della città, però, resta caotica: sono tantissime le persone che sperano di poter prendere un volo commerciale per Dubai o per Istanbul, o di poter salire su un volo di evacuazione degli Stati Uniti o del Regno Unito, ma l’aeroporto ha subito danni ingenti durante la grande fuga dei giorni scorsi, che richiederanno qualche tempo per essere riparati. Anche solo arrivare fuori dall’aeroporto è difficile e pericoloso, molte persone sono state aggredite da militanti, infrangendo la promessa che i talebani avevano fatto solo un giorno prima. L’ambasciata statunitense a Kabul ha pubblicato una nota in cui specifica che Washington non può garantire che il percorso per l’aeroporto sia sicuro.

Al netto dei discorsi di riappacificazione, secondo fonti dell’Intercept i talebani avrebbero messo le mani sugli strumenti di riconoscimento biometrico lasciati alle spalle dall’esercito statunitense. Durante l’occupazione, l’esercito statunitense ha aggregato un grande database di informazioni biometriche — l’obiettivo era schedare 25 milioni di persone — che ora il gruppo potrebbe utilizzare per rintracciare persone che hanno collaborato con il governo precedente. Il progetto originariamente doveva essere solo militare, ma erano poi state inserite le informazioni anche di molti lavoratori e collaboratori civili. Secondo fonti vicine all’esercito sentite dall’Intercept i talebani non avrebbero gli strumenti per accedere al database, ma secondo una ricostruzione parallela di Reuters, in realtà da almeno cinque anni il gruppo ha strumentazioni che gli permetterebbero di interfacciarsi con database di impronte digitali. L’organizzazione statunitense per i diritti umani Human Rights First ha pubblicato due guide per cercare di non essere identificati con dati biometrici e per proteggere la propria identità online dai talebani.

Segui Alessandro su Twitter

Sostieni l’informazione indipendente di the Submarine: abbonati a Hello, World! La prima settimana è gratis

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.