Autolesionismo diffuso, grave carenza di cure sanitarie, mancanza di mediatori, sospensione dello stato di diritto: il Cpr di via Corelli è fuori dalla legge
Il Cpr di Milano va sequestrato: a chiederlo sono i due senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, che a inizio giugno hanno visitato il centro. In seguito De Falco ha pubblicato il rapporto “Delle pene senza delitti,” che fornisce il quadro più completo, finora, delle condizioni di vita disumane al suo interno. Ora i due senatori hanno presentato due esposti penali: uno per il reato di tortura, relativo a un pestaggio avvenuto il 25 maggio con modalità molto simili a quelle rese tristemente famose dal carcere di Santa Maria Capua Vetere; uno per rifiuto di atti d’ufficio, chiedendo il sequestro preventivo della struttura per la “totale indisponibilità” di cure sanitarie specialistiche, dovuta al mancato accordo tra prefettura e regione.
Nel report, lungo 90 pagine, De Falco compila un duro resoconto di quello che ha potuto vedere durante i propri sopralluoghi. Tra le carenze più gravi che vengono denunciate:
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- L’assenza di un registro degli eventi critici, che sarebbe stato “nella sola disponibilità del direttore, in un non meglio precisato cassetto chiuso a chiave,” né un registro delle persone trattenute — al suo posto, c’era un file Excel modificabile.
- L’assenza di un protocollo con l’Ats e con il Serd per la cura dei detenuti, che si traduce in una grave carenza di cure sanitarie e che rende il Cpr un “carcere fuori legge”: l’ambulatorio medico non è presidiato, i detenuti fanno un largo uso di sedativi e l’autolesionismo è all’ordine del giorno.
- La dotazione insufficiente del personale e la mancanza di medici, psicologi e mediatori linguistici.
- L’impossibilità di comunicare con l’esterno.
Nella seconda parte sono raccolti i colloqui con i detenuti, con alcune storie agghiaccianti: come il caso di L.A., rilasciato dopo un TSO e dopo un ricovero per atti di autolesionismo, senza poter avvisare il suo avvocato e senza telefono cellulare — di lui si sono quindi perse le tracce; o quello di G.M., tossicodipendente da sei anni e in cura al Serd, costretto a interrompere bruscamente la cura per la mancanza di un accordo tra il Serd e la prefettura; o quello di A.M.B., che viveva in uno stato europeo con una compagna europea in attesa di una bambina, chiuso nel Cpr (e fortunatamente liberato a fine giugno) senza poter completare le procedure per riconoscere la figlia e ottenere il permesso di soggiorno; o C.K., che vive in Italia dal 1992 ed è stato regolare fino al 2010, e ora si trova chiuso nel Cpr da gennaio nonostante una grave ipertensione.
Il rapporto si aggiunge alle numerose testimonianze che riescono a emergere dall’interno del centro direttamente da parte dei detenuti: l’ultima risale a pochi giorni fa, con un video che mostra i bagni senza porte, il cibo immangiabile gettato per terra per protesta, le docce non funzionanti. Non si può dire, insomma, che le condizioni di vita all’interno del centro non siano note — ma il governo, e nello specifico la ministra Lamorgese, finora hanno scelto di ignorare la realtà dei fatti. Entrare nei Cpr per giornalisti e attivisti è notoriamente difficile — Negli ultimi tempi, diverse prefetture hanno impedito ai giornalisti l’accesso, come ormai è consuetudine, e Melting Pot ha diramato un appello per chiedere a giornalisti e attivisti di avanzare richiesta in massa presso la prefettura che ha in gestione il Cpr più vicino.
Lo scorso 8 aprile avevamo già stilato un bilancio — drammatico — della situazione del Cpr di via Corelli dopo soli sei mesi di apertura. Il centro si è occupato prevalentemente del rimpatrio di migranti tunisini, ed è stata accertata la presenza indebita di minorenni al suo interno. Nel corso del tempo sono stati fatti diversi altri appelli per provare a sollevare il velo sull’orrore della vita nei Cpr: lo scorso dicembre la camera penale di Milano ne aveva chiesto la chiusura, parlando di “situazione disumana” in via Corelli. Mentre da parte della giunta, anche in vista della campagna elettorale, continua a registrarsi una sostanziale rassegnazione o connivenza con la presenza di un campo di concentramento sul proprio territorio comunale.
I diritti dei migranti e delle persone di origine non italiana nel paese sono sempre più messi in discussione — basti pensare allo sfruttamento schiavistico dei migranti nelle campagne, e al tramonto — si direbbe definitivo — delle timide proposte di legge sullo ius soli: l’eredità di anni di propaganda razzista e fascistoide si stanno facendo sentire anche dopo la pandemia. Il risultato è che ormai è discutibile anche il fatto stesso che l’Italia sia un paese sicuro in cui migrare. Un tribunale amministrativo del Nord Reno-Vestfalia ha deciso di non rimandare in Italia due richiedenti asilo “dublinanti” — che quindi sarebbero dovuti rientrare nel paese di primo approdo, appunto l’Italia — perché rischierebbero un “trattamento inumano e degradante,” a causa della mancanza di assistenza e servizi di supporto, senza accesso a una struttura di accoglienza e diritto all’alloggio.
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in copertina: elaborazione da Google Maps