Sulla cittadinanza a Zaki il governo italiano non ha più scuse
Il silenzio su Patrick Zaki, le bombe sullo Yemen, la soddisfazione per la Libia: nonostante i toni forti e poco “politici” dei primi mesi, il governo Draghi è molto a proprio agio a mantenere rapporti con chi non rispetta i diritti umani
Il silenzio su Patrick Zaki, le bombe sullo Yemen, la soddisfazione per la Libia: nonostante i toni forti e poco “politici” dei primi mesi, il governo Draghi è molto a proprio agio a mantenere rapporti con chi non rispetta i diritti umani
La Camera ha approvato all’unanimità, con la sola astensione del gruppo di Fratelli d’Italia, la mozione che impegna il governo ad “avviare tempestivamente le necessarie verifiche” per concedere la cittadinanza a Patrick Zaki — oltre a continuare a monitorare lo svolgimento delle udienze a suo carico e “adottare iniziative” per chiedere al governo egiziano il rispetto dei diritti umani. Dopo l’analoga mozione approvata dal Senato ad aprile Draghi se n’era lavato le mani parlando di “un’iniziativa parlamentare in cui il governo non è coinvolto”: ora invece l’esecutivo non ha più scuse.
La risposta con cui Draghi archiviava il sostegno del Senato per Zaki arrivava solo pochi giorni dopo un altro momento – diciamo ispirato – delle sue prime settimane da presidente del Consiglio, quando, commentando l’infelice episodio che aveva coinvolto von der Leyen, Draghi aveva detto che Erdogan fosse “un dittatore.” La dichiarazione aveva creato un caso internazionale, ma la parte piú interessante della dichiarazione era la seconda metà della frase: un dittatore “di cui si ha bisogno.”
Erano giorni intensi per l’allora nuovo presidente del Consiglio. Il giorno prima, mentre von der Leyen era appunto in visita dall’altro “guardiano” dei confini esterni europei, Draghi si era recato per una “visita lampo” in Libia, e, dimostrando una conoscenza non solidissima della storia delle relazioni italo-libiche, aveva parlato di “un’antica amicizia e una vicinanza che non ha mai conosciuto pause.” Riguardo al “campo migratorio,” il premier aveva espresso la propria “soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi.”
Da allora, forse avendo recepito gli scandali, il premier ha saputo essere più moderato con le proprie dichiarazioni. Tuttavia, la linea politica del governo sembra essere perfettamente riassunta in quel “di cui si ha bisogno.” È una visione estremamente cruda, di realpolitik, che spiega benissimo perché nessuno nell’arco politico della maggioranza sia intenzionato a mettere in discussione il rifinanziamento della missione militare in supporto alla cosiddetta Guardia costiera libica — nemmeno dopo il video della tentata strage in mare da parte di una motovedetta libica (donata dall’Italia) ai danni di un’imbarcazione di migranti.
Il governo non è cospicuamente silente solo sul caso Zaki: la politica è anche rimasta completamente inerte, la settimana scorsa, di fronte alla notizia della condanna in Marocco a tre anni di carcere per una studentessa italo–marocchina dell’Università di Marsiglia — rimasta anonima — fermata in aeroporto a Marrakech il 20 giugno, e condannata per un post ironico su Facebook che secondo le autorità locali costituisce una “offesa pubblica all’Islam.”
Ieri la campagna per la cittadinanza a Zaki è arrivata anche a Strasburgo: gli attivisti di “Station to Station” hanno consegnato al presidente del parlamento europeo David Sassoli le 270 mila firme raccolte online per chiedere questo obiettivo: “I cittadini delle principali nazioni europee, le quali continuano a fare affari di ogni genere con l’Egitto, hanno mandato un segnale molto forte ai loro governi.”
Del resto il governo italiano non perde occasione per dimostrare la propria vicinanza ai regimi sanguinari con cui stringe legami di interesse economico: ricorderete che a fine gennaio era stata presa la decisione di revocare l’esportazione di missili e bombe all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Bene, quella decisione non è sopravvissuta neanche sei mesi: ora la Uama — l’unità della Farnesina che si occupa dell’export di armamenti — ha allentato le restrizioni, togliendo la clausola rafforzata di “end of user certificate,” che garantisce — almeno in teoria — che gli armamenti esportati non vengano utilizzati nella guerra in Yemen. La decisione non si applica a missili e bombe, la cui esportazione ai due paesi resta vietata, ma ad altre tipologie di armamento — che non solo potranno essere esportate, ma anche utilizzate in Yemen.
Proprio domani cade il 31° anniversario della legge 185/1990, che vieta la vendita di armi ai paesi che non rispettano i diritti umani. Per l’occasione, la campagna “Banche Armate” — promossa da tre riviste missionarie — ha organizzato una protesta davanti alla sede della fabbrica d’armi RWM a Ghedi, in provincia di Brescia.
La questione della vendita di armi ad Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti mostra in modo lampante i limiti dell’ambizione politica delle forze progressiste occidentali: nonostante, proprio sull’onda della decisione italiana, ci sia una posizione ufficiale del Parlamento europeo — che chiede la messa al bando della vendita — la mozione è stata particolarmente tormentata, ed è passata senza il supporto di 23 dei 24 europarlamentari francesi di Renew Europe, e di 7 dei 9 europarlamentari spagnoli liberal. Il percorso dell’Italia, da questo punto di vista, ricalca in modo preciso quello che successo negli Stati Uniti — dove però non c’è stato un cambio di maggioranza tra le due decisioni: Biden aveva congelato la vendita di armi verso i due paesi nei primissimi giorni della sua presidenza, solo per poi rimangiarsi la decisione poche settimane dopo.