Violenze e torture in carcere non sono “casi isolati,” ma la politica si ostina a non riconoscerlo

A vent’anni dal G8 di Genova, le torture a Santa Maria Capua Vetere hanno riportato l’argomento al centro del dibattito — ma ancora non sono stati nemmeno introdotti i codici identificativi sulle divise

Violenze e torture in carcere non sono “casi isolati,” ma la politica si ostina a non riconoscerlo

A vent’anni dal G8 di Genova, le torture a Santa Maria Capua Vetere hanno riportato l’argomento al centro del dibattito — ma ancora non sono stati nemmeno introdotti i codici identificativi sulle divise

“L’orribile mattanza” avvenuta all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, grazie alle testimonianze pubblicate dal quotidiano Domani, non può più essere ignorata e impone a livello nazionale un dibattito sulla normalità delle violenze in ambito carcerario e sull’impunità degli agenti della polizia penitenziaria.

Ieri è stato pubblicato un nuovo video delle telecamere di sorveglianza, in cui si vede come gli agenti abbiano prelevato i detenuti dalle celle uno alla volta e li abbiano costretti a scendere dalle scale, colpendoli con calci e manganelli a partire dal pianerottolo. Il video si aggiunge a quelli già pubblicati nei giorni scorsi, in cui si vedono i detenuti inginocchiati con le mani dietro la testa, appoggiati al muro, nell’area socialità del carcere casertano.

Per la vicenda 52 agenti sono stati sospesi e in tutto ci sono 117 indagati, incluso Antonio Fullone, il provveditore regionale per le carceri della Campania, considerato uno dei quattro “registi” della spedizione punitiva e responsabile di un depistaggio per ostacolare le indagini sull’accaduto, al punto da aver manipolato i video delle telecamere di sorveglianza — non tutti, infatti, sono disponibili — e orchestrato il ritrovamento di un “arsenale” dei detenuti per giustificare la “perquisizione straordinaria.”

Lo stesso Fullone aveva informato della perquisizione — omettendo il dettaglio dei pestaggi — l’allora direttore del Dap Francesco Basentini, che gli aveva risposto “hai fatto benissimo.” Basentini — che non è indagato — era stato fortemente voluto al suo posto dall’allora ministro della giustizia Bonafede. Rispondendo a un’interrogazione parlamentare lo scorso ottobre, Bonafede aveva definito l’operazione “una doverosa azione di ripristino di legalità.”

I fatti del 6 aprile 2020 si inseriscono infatti nel contesto più ampio delle rivolte avvenute in numerosi istituti penitenziari tra marzo e aprile e della repressione che ne è seguita. Non sempre le inchieste della magistratura sono riuscite a far emergere la verità: sulla repressione della rivolta nel carcere di Modena, nonostante nove morti frettolosamente attribuiti a overdose di metadone, pochi giorni fa il gip ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura.

Anche nel caso di Santa Maria Capua Vetere c’è un morto sospetto: Hakimi Lamine, 27 anni, affetto da schizofrenia, picchiato con violenza e morto il 5 maggio 2020 per un arresto cardiaco causato da una grossa quantità di farmaci assunti “in rapida successione e senza controllo sanitario,” mentre si trovava in isolamento dopo la “perquisizione.” Secondo la procura, la sua morte è da attribuire direttamente ai pestaggi e alle mancate cure — ma il gip ha rubricato il caso come suicidio.

A pochi giorni dal ventennale del G8 di Genova, le testimonianze su quello che è accaduto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere riportano alla memoria gli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto: stupri anali con il manganello, detenuti in sedia a rotelle pestati, agenti che urinano sulle vittime, i medici che minimizzano le ferite, le telefonate ai familiari per raccontare il massacro.

Come allora, la politica è tutt’altro che unanime nel condannare le violenze: il Movimento 5 Stelle, che all’epoca dei fatti esprimeva il ministro della giustizia, ha scelto di rimanere in silenzio, mentre Salvini, con un frettoloso “chi sbaglia paga,” si è schierato naturalmente al fianco degli agenti, così come Giorgia Meloni.

Il Pd ha chiesto alla ministra Cartabia di riferire in Parlamento: secondo Letta, “abusi così intollerabili non possono avere cittadinanza nel nostro paese.” La stessa Cartabia ieri ha convocato una riunione straordinaria con l’attuale capo del Dap, Bernardo Petralia, e il garante dei detenuti Mauro Palma: la ministra, che avrebbe chiesto “approfondimenti” sulla catena di responsabilità, ha parlato di “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti” ma anche alla divisa della polizia penitenziaria, oltre che un “tradimento della costituzione.”

Ma il caso è tutt’altro che una novità — e il fatto stesso che gli agenti abbiano condotto la propria spedizione punitiva in aree coperte dalle telecamere di sorveglianza dimostra bene il senso di impunità di cui evidentemente erano convinti di godere. A febbraio, 10 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano sono stati condannati per torture e lesioni aggravate avvenute nell’ottobre 2018: si tratta uno dei primi casi giudiziari di questo genere, dato che il reato di tortura è entrato nell’ordinamento italiano soltanto nel 2017.

Alla politica spetta quindi il compito di abbandonare definitivamente la retorica delle “mele marce,” riconoscendo l’esistenza di un problema sistemico, come da anni denunciano le associazioni che si battono per i diritti all’interno del carcere, come Antigone e A Buon Diritto. Il presidente di quest’ultima, l’ex senatore Luigi Manconi, ha definito “opportune” le parole della ministra Cartabia, specificando però che “non esauriscono il problema”: “Bisogna riformare il carcere da cima a fondo. Nelle carceri il 30% delle persone recluse è in attesa di condanna definitiva, e questo è incivile. Il numero dei tossicodipendenti è elevatissimo, e questo è incivile. La riforma del carcere deve essere radicale, va trasformato da cima a fondo. Finora nessuno ha dimostrato di volerlo fare.”

Ma finora nessuno ha dimostrato di voler fare nemmeno un gesto molto più semplice, che permetterebbe almeno di ridurre il margine di impunità degli agenti di polizia, non solo in ambito carcerario: introdurre i codici identificativi sulle divise. Da più di un anno c’è una petizione di Amnesty International rimasta inascoltata. Ora anche Domani, dopo la pubblicazione delle inchieste su Santa Maria Capua Vetere, ha lanciato su Change.org una petizione per chiedere la stessa cosa. L’impressione è che non ci sia nessuno all’ascolto.

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