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Dopo essere stato trasmesso dal Tg3, il video è ovunque su internet. La sua diffusione mette in evidenza come il giornalismo italiano non sappia esercitare empatia per le vittime delle tragedie su cui può lucrare

Oggi, nell’edizione di mezzogiorno, il Tg3 ha mandato in onda un video — che poi è stato pubblicato dal telegiornale su Twitter, ma che noi non linkiamo, anche perché nel frattempo purtroppo l’avrete già visto — in cui si vede la cabina della funivia del Mottarone nei momenti prima della caduta, quando inizia a correre velocissima sulle funi che la tenevano sospesa.

È un video drammatico, che mostra gli ultimi momenti della vita di 14 persone, che fanno da contrasto al bel paesaggio montano che fa da sfondo alla tragedia. La pubblicazione ha destato immediatamente scandalo su internet, ed è stata ripresa da tantissime testate online — anche quelle più ambiziose. Non voglio sminuire le discussioni che certamente ci sono state in tutte le redazioni, in primis quella del Tg3. Per questo, anche se personalmente trovo gravissimo che si sia deciso di trasmetterlo, e piuttosto desolante che così tanti siti che vivono di click abbiano deciso di riprenderlo, non ho intenzione di scrivere se fosse giusto pubblicarlo, e quali argomenti ci siano a favore o contro la sua pubblicazione. In queste ore stanno certamente scrivendo pezzi come questo innumerevoli altri disgraziati come me, a cui lascio decidere dove finisce l’incidente di cui studiare le caratteristiche e dove inizia l’omicidio di un presidente degli Stati Uniti

Si tratta, invece, di un’occasione per fare un discorso più ampio, e che riguarda tuttoil giornalismo italiano: ovvero lo strano rapporto tra i nostri cronachisti e l’empatia. 

La contestualizzazione della violenza

In Italia il discorso attorno ai trigger warning, gli avvisi che dovrebbero precedere ogni contenuto che potrebbe costituire un trigger per un proprio trauma, è molto arretrato. È un parallelismo che va fatto con cautela, ma è possibile tracciare un collegamento tra la mancanza di cura per la presentazione di contenuti gore e il machismo che infetta ogni redazione italiana, secondo il quale l’orrore del mondo è parte dell’informazione, ed è intellettualmente onesto mostrarlo al proprio pubblico senza filtri. Solitamente si fa una singola eccezione: le produzioni snuff di stampo politico — come le decapitazioni del cosiddetto Stato islamico — per le quali si è raggiunta abbastanza rapidamente la consapevolezza che si stava diffondendo propaganda. Quando la stampa decide di non trasmettere contenuti violenti, insomma, non è perché non vuole mostrare il sangue, ma per motivi politici.

Contestualizzare le immagini di violenza non è utile solo per chi potrebbe rivivere i propri traumi, ma anche per chi ha la fortuna di non averne: il dibattito sulla possibile anestetizzazione che il pubblico raggiunge venendo sottoposto a un ciclo di immagini violente è potenzialmente eterno, da Ālān Kurdî ai bambini morti sulla costa di Zuwara. È scorretto dare colpa solo alle immagini: la responsabilità di come utilizzarle è sulle spalle dei giornalisti.

Cosa dice un’immagine (o un video)

Non voglio dire che è sbagliato pubblicare immagini tragiche, o che mostrano gli effetti tragici di alcune decisioni. Ma per utilizzarle è necessario che chi le divulga sappia provare e praticare empatia, una risorsa che nel mondo dell’informazione è tradizionalmente considerata di minor valore. Ovviamente, il mito del giornalista al di sopra della morale è un mito, che fa parte della retorica machista secondo cui i giornalisti sono tuttologi ruvidi, disillusi, caustici. Quando si parla di tragedie come quella della funivia Stresa–Mottarone, invece, l’empatia è il più importante strumento in mano a chi fa informazione. Un esempio sono le fotografie di Jacob Riis, che alla fine dell’Ottocento per la prima volta riuscirono a far capire che cos’era la povertà al proprio pubblico privilegiato, anestetizzato dal genere letterario–giornalistico dello slumming e dal vero e proprio slum tourism popolare in quel periodo storico — e che, a differenza dei lavori di Riis, era del tutto privo di empatia. L’empatia è, semplicemente, lo strumento che permette di superare il voyeurismo.

Che cosa significa presentare immagini di morte usando empatia? Significa riconoscere la dignità dei soggetti ritratti, che invece sono quasi sempre ridotti a corpi, come nel caso del video diffuso oggi dalla stampa italiana. Diversi giornalisti stanno facendo paragoni ai limiti della caricatura, arrivando quasi a lamentarsi di un presunto clima di censura. La stampa si chiude a riccio di fronte a questo tipo di critiche, parafrasando una sequela di luoghi comuni di estrema destra come la “dittatura dei virtuosi” e la cancel culture. 

Ma così ammettono implicitamente la propria miopia: un documento è rilevante se contiene nuove informazioni, se ci permette di completare un’analisi come giornalisti, o una riflessione collettiva come società. Il giornalismo fa uso di documenti violenti per raccontare la cronaca nera, un genere giornalistico che ha da tempo fatto pace con l’essere intrattenimento: è scritta sui giornali e prodotta per la tv come tale, e fa uso della violenza per rafforzare un proprio codice grottesco, opposto a quello empatico.

Un nuovo documento sulla tragedia della funivia di Mottarone può avere molte forme: può rivelare qualcosa di inaspettato nei meccanismi dell’incidente, oppure ci può aiutare a sistemizzare la vicenda, per capirne le cause e il contesto, attraverso dati o attraverso una prospettiva finora inedita. Il video del Tg3, a mio avviso, non ricade in nessuna delle due categorie: arriva settimane dopo ricche ricostruzioni 3D, e non conferisce nuova umanità a nessuna delle persone che hanno perso la vita nell’incidente, che per altro hanno condotto vite largamente sovrapponibili al pubblico piccolo borghese che sta consumando voracemente il contenuto.

Le pageviews e l’audience 

Prima l’ho nominato velocemente, ma bisogna sottolineare che la difesa della pubblicazione da parte delle redazioni sia una razionalizzazione di un problema di fondo: il meccanismo dello share, per la televisione, e delle pageviews, per i siti internet, crea una profonda frattura tra le priorità di un editore e quelle del proprio pubblico. Il video dell’incidente è, senza ombra di dubbio, uno dei contenuti più caldi della giornata, e non averlo sul proprio sito internet vuol dire lasciare soldi sul tavolo: il contenuto, di per sé, è una scusa per mettere in una pagina con delle pubblicità l’embed di Twitter del Tg3, e aggiungere un titolo che permetta di portare pubblico da Google e Facebook sul proprio sito. 

Per questo è importante sottolineare che la cronaca nera è intrattenimento: non importa se il video della tragedia sia un documento rilevante o meno, perché è stato utilizzato come un documento di cronaca nera anziché di informazione vera e propria. Lo si è servito senza valutare se la pubblicazione fosse utile, rispettosa dei morti e dei loro familiari; se alla fine dei conti aggiungesse qualcosa alla conversazione attorno alla strage di Mottarone. 

Lucrare sulla popolarità delle tragedie è un aspetto del business del giornalismo che i blasonati direttori di testata non vogliono mettere troppo in mostra, ma che non è un segreto. Tutte le redazioni che hanno pubblicità sul proprio sito internet si trovano a fare i conti con questa logica tutti i giorni, che gli piaccia o no. È un baratto che molti ritengono lecito: gli articoli di costume, i contenuti di puro intrattenimento, pagano anche i lavori di giornalismo vero, di cui una redazione può essere fiera. Non c’è di per sé niente di male, ma la fame di portare quanti più occhi possibili sul proprio sito internet porta facilmente ad accettare progressivamente compromessi sempre più duri, in un processo di anestetizzazione non molto diverso da quello che si fa subire al proprio pubblico — con la differenza che questo non ne è spesso del tutto cosciente.

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Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.