Viaggio nelle Residenze Sanitarie Assistenziali dopo un anno di Covid. Seconda parte
foto Marta Clinco
testo Stefano Colombo e Marta Clinco
Le Rsa rispondono a una domanda della società ma, tra la drastica scarsità di personale e l’imperante necessità del profitto, non possono garantire nemmeno l’assistenza necessaria minima per i propri ospiti anziani
Le Rsa sono un investimento sicuro dato che la popolazione italiana sta invecchiando rapidamente. Nel 2017 il nostro è stato il paese più anziano del mondo, con più del 29% della popolazione sopra i 60 anni. Negli ultimi due decenni, gli stati europei hanno incoraggiato gli investimenti privati nel settore delle Rsa — come, del resto, nel resto della sanità — e gli investimenti non si sono fatti attendere: secondo quanto riporta una esaustiva analisi di StartMag, anche se oggi i gruppi di investimento privati offrono un quinto dei posti letto complessivi delle Rsa italiane, stanno investendo con decisione nel settore. Le principali aziende sono Kos del gruppo Cir, Tosinvest, Sereni Orizzonti, oltre che i grandi gruppi francesi Korian e Orpea. Cir è della famiglia De Benedetti, e controlla 77 strutture in 10 regioni italiane, in particolare nel centro-nord, con attività nel Regno Unito e in India.
L’arrivo della pandemia però ha portato a un rinnovo della discussione sulla sanità italiana, pubblica e privata. Se fino allo scorso anno nessuno metteva seriamente in dubbio il fatto che le Rsa fossero un pilastro della società nei prossimi decenni, oggi non è più così certo — e si è addirittura tornato a speculare su una possibile riduzione del ruolo dei privati nella sanità. Sia le storie di maltrattamenti che ciclicamente vengono a galla nel dibattito pubblico — molte note anche prima della pandemia — che la situazione creata dal Covid hanno risollevato un dibattito più sottile, sempre rimasto sottinteso nella nostra società: qual è il ruolo dei grandi anziani nell’Italia di oggi? E la nostra società come e quanto intende occuparsi di loro?
In questo scenario, le Rsa rappresentano l’ultima tappa della vita di molte persone che, non più autosufficienti e senza una famiglia disponibile ad occuparsi di loro, terminano la propria esistenza in queste strutture — quasi una necessità per una società che invecchia sempre di più. Alla luce dei disastri dello scorso anno, l’idea stessa delle Rsa è stata sempre più spesso messa in discussione. A cominciare dal Recovery Plan, che ha dato spazio alle cosiddette “case di comunità,” strutture dove potranno venire erogati i servizi sanitari di base per chi non ha necessità di cure urgenti. Le strutture saranno pensate per chi ha malattie croniche o è anziano, in modo da costituire una fase intermedia tra l’assistenza domiciliare e il ricovero in ospedale. Un progetto di ampio respiro e di non facile realizzazione — sul quale, peraltro, il governo Draghi sembra essere più scettico di quello Conte.
Per approfondire la situazione delle Rsa italiane abbiamo deciso di parlare con Sebastiano Capurso, presidente di Anaste, l’associazione che rappresenta le imprese private di assistenza residenziale agli anziani. Secondo Capurso, “La situazione nelle Rsa oggi è molto buona dal punto di vista della copertura vaccinale. Siamo arrivati a livelli molto elevati e questo ci dà tranquillità, anche se stiamo affrontando una situazione in cambiamento: alcuni anziani non possono ricevere la vaccinazione per condizioni cliniche, altri sono allergici o hanno degli scompensi. Ma tra gli operatori anche la percentuale dei vaccinati è molto alta, oltre il 95%. Forse le Rsa in questo momento sono il posto più sicuro dove tenere un anziano.”
Capurso non ci sta al fatto che le Rsa passino dalla parte dei cattivi. Fa notare che la situazione delle case di riposo italiane è quantomeno il risultato di una serie di fattori, molti dei quali noti da tempo. “Tra gli operatori sanitari e tra i gestori c’è una percezione di una campagna in atto di disinformazione rispetto alle Rsa. Invece di riconoscere lo sforzo che è stato fatto si parla di maltrattamenti e di mancato rispetto delle condizioni delle visite, il che non è affatto vero, sono dati a mio avviso privi di supporto scientifico. Tutte le strutture Anaste sono state adeguate ai provvedimenti di novembre 2020. Abbiamo solo rispettato le norme sulle visite senza contatto fisico anche se in presenza. Io mi aspetterei che il ‘governo dei migliori’ abbia perlomeno degli esperti che sappiano di cosa parlano.”
Ci interessa sapere da Capurso come mai la situazione delle case di riposo sia giunta fino a questo punto, e come sia sia arrivati a polemiche e proteste così diffuse da causare una risposta esplicita da parte del governo. Capurso ammette che “è una situazione molto difficile dal punto di vista psicologico per l’isolamento dai parenti, amici e affetti. In questo momento con la conferenza stato regioni ci si sta muovendo verso una soluzione. Iniziano a esserci segnali positivi per la riapertura controllata anche delle Rsa.”
Le Rsa hanno problemi non solo con i parenti degli ospiti e con gli ospiti, ma anche con i propri lavoratori. Nei mesi del Covid, tutto il personale sanitario è stato esposto a rischi molto più elevati rispetto ai lavoratori di altre categorie, vedendo anche aumentare le proprie responsabilità e il proprio carico di lavoro. Inoltre, secondo molte testimonianze, diversi lavoratori sono stati oggetto di mobbing e di intimidazioni per coprire errori e decisioni sbagliate della dirigenza di diverse testimonianze — soprattutto prese nella scorsa primavera.
Secondo Capurso, “per fronteggiare la pandemia il numero di dipendenti nelle Rsa è aumentato. È stato necessario quindi fare delle assunzioni, soprattutto di Oss. Il problema vero sono gli infermieri, assorbiti con bandi folli per fare la campagna vaccinale, svuotando le Asl e le Rsa. In Italia non ci sono infermieri sufficienti per gestire tutto questo. Nelle Rsa sono stati assunti tantissimi Oss [con ruolo da infermieri] che potessero dare una mano [quindi non competenti, ndr] non avendo disponibilità di lavoratori formati.” Il problema della mancanza di personale — soprattutto qualificato — è stato forse il principale punto debole del Sistema Sanitario Nazionale, che ancora più della mancanza di risorse ha contribuito al suo cedimento. E che si è riflesso anche sulle Rsa.
Oltre a difendere il proprio settore nel merito, Capurso difende anche l’idea stessa di Rsa, che è stata messa in discussione alla luce degli eventi dell’ultimo anno. “Continuare a dire che ci sono i maltrattamenti senza numeri e statistiche non ha alcun valore. Si sparano dati a casaccio per screditare e danneggiare un settore e favorirne un altro. Le case di comunità o gli ospedali di comunità non sono applicabili, è una follia, è una realtà superata. Uno spreco di soldi.”
Abbiamo parlato con N, un Oss che ha iniziato la sua carriera professionale in alcune Rsa della zona Nord di Milano. “La mia esperienza nelle Rsa fortunatamente è durata poco,” ci racconta N. “È stata un’esperienza orrenda, non tanto perché il carico di lavoro sia particolarmente alto rispetto ad altre strutture sanitarie, ma perché l’Rsa è l’ultimo posto nella gerarchia delle strutture. In gran parte attirano operatori che non vorrebbe fare quel lavoro, ma che purtroppo sono costretti perché non trovano altro, dunque per motivi economici.”
N. ha osservato ciò che, purtroppo, molti sospettano: spesso nelle Rsa il punto centrale non è il benessere del paziente, bensì il profitto. “L’attenzione verso gli ospiti dovrebbe essere il core business delle Rsa. Nelle Rsa non si cura nessuno per malattie (si somministrano solo le terapie prescritte dai medici di base o dagli ospedali): bisogna semplicemente fare in modo che gli ospiti stiano il meglio possibile sotto il profilo esistenziale. Purtroppo non è così, sia da parte di chi ci lavora che da parte dell’azienda a monte. Le Rsa sono macchine che producono profitti altissimi contro spese sempre mantenute al minimo.”
Secondo N, gli anziani ospitati nelle Rsa sono vittime di una vera e propria mercificazione. “In questa società cosa ce ne frega dei vecchi? Per l’azienda non sono nemmeno clienti, sono la materia prima inanimata con cui produrre profitto: i clienti sono i parenti, che per ragioni diverse hanno la necessità di ricoverarli lì anziché tenerli in casa.”
In quest’ottica, il turnover di cui parlava Azzoni, secondo N, è un sintomo e una causa del malfunzionamento del sistema. “Gli operatori vengono pagati pochissimo — per quanto riguarda quelle aziende che perlomeno ti pagano, e diciamo che non sono il 100%. Inoltre sono ambienti in cui ci si vive sempre sulla soglia del burnout psicologico, soprattutto per chi fa bene questo lavoro.” Purtroppo, non tutti i colleghi incontrati da N. finora hanno preso il proprio lavoro con il suo stesso spirito.
“Mi hanno dato 25 giorni di affiancamento, in cui ho lavorato in realtà praticamente non affiancato. Il primo mese è andato anche bene, tranne che dopo una settimana uno dei capetti del personale, che tra l’altro era anche il sindacalista, è venuto da me e mi ha detto, ‘hai presente quelle cose che facevi tipo andare dagli ospiti e farli giocare eccetera? Non le vogliamo più vedere, perché sennò tocca farle anche a noi.’ Ho visto reazioni aggressive verso persone over 80, over 90, che alle 10 del mattino andavano cambiate. Urla, cose dell’altro mondo. Gli tiravano i capelli con la spazzola, cose così. Ci sono poi colleghi bravi, ovviamente, ma se si mettessero delle telecamere nelle stanze, diverse Rsa sarebbero probabilmente chiuse.”
Secondo N, “le case di riposo rispondono a una grande esigenza della società — senza giudizio etico, a cui rispondono con la rapacità del capitalismo: tu sei cliente, ti tolgo il problema, ma non indagare su come lo risolvo.” Ed è per questo motivo che, nonostante il dolore provocato dalla chiusura totale e dall’isolamento forzato degli ospiti dai propri parenti, la situazione è rimasta in stallo così a lungo. “Il loro grande punto di forza, delle Rsa, è che chi sta in una struttura farebbe molta fatica a stare a casa con le condizioni di adesso. Ti dicono — non ti sta bene così? Portatelo a casa.”