in copertina, foto via Facebook
Dallo scorso 28 settembre, fino a fine febbraio, sono transitate nel Cpr di via Corelli 449 persone. Di loro, 416 sono state rimpatriate. A causa degli accordi tra Italia e Tunisia, tantissime sono tunisine, 355
Il governo Draghi sulle migrazioni si sta dimostrando in continuità con quelli precedenti — come d’altronde intuibile dalla conferma al ministero dell’interno di Luciana Lamorgese. La visita dell’altroieri in Libia ha mostrato che anche Draghi vede le migrazioni come un’emergenza da reprimere, dichiarandosi “soddisfatto” dei metodi delle autorità libiche nel “soccorso” in mare e nella gestione delle persone. Com’è noto, questi metodi prevedono la detenzione di un numero imprecisato di migranti in veri e propri “lager,” dove secondo diversi report dell’Onu e di altre associazioni vengono da anni applicate sistematicamente torture e violazioni dei diritti umani.
Che Draghi sembri entusiasta del modello detentivo dei campi di concentramento — posti dove persone innocenti vengono private della libertà senza una sentenza e senza che abbiano commesso alcun reato — lo si vede bene anche dalla continuazione sotto il suo governo dell’attività dei Cpr, i “centri di permanenza per il rimpatrio,” zone grigie del diritto, dove i cittadini stranieri vengono confinati in attesa di venire espulsi verso altri paesi.
— Leggi anche: Il Cpr di via Corelli dev’essere chiuso al più presto
Milano è direttamente coinvolta in questa politica di dubbia legittimità giuridica, visto che dallo scorso 28 settembre è operativo il centro di via Corelli. Il centro è situato in una zona remota alla periferia Est della città in un’area spesso destinata alla gestione dei migranti, e ce ne siamo occupati spesso: fin da subito, infatti, all’interno del centro sono scoppiate rivolte ed è stata segnalata da più parti l’impossibilità di tenere aperta una struttura del genere durante una pandemia. Il mese scorso alcuni consiglieri comunali avevano visitato il centro, parlando di “criticità” nelle condizioni di vita e nel rispetto di diritti fondamentali, come la possibilità di interloquire con i propri avvocati o garanti.
Abbiamo parlato con L., un attivista della rete Mai più lager – No ai Cpr di Milano, per capire com’è ora la situazione del centro, tra violazioni della privacy, pochi contatti con l’esterno e reclusione di minori.
“Visti gli accordi di Lamorgese con la Tunisia — non ancora del tutto chiari — nell’ultimo periodo sono passati dal centro fondamentalmente quasi solo tunisini. Dal 28 settembre fino a fine febbraio ci risulta che siano transitate 449 persone, di cui 355, appunto, tunisini. 416 di queste persone sono state rimpatriate.” Gli accordi con la Tunisia sono stati infatti stretti con una grave mancanza di trasparenza nello scorso agosto: il governo italiano avrebbe impegnato 11 milioni di euro per fornire alla Tunisia — in modo simile a quanto già fatto con la Libia — radar, acquisto e manutenzione di mezzi militari, formazione per le guardie di frontiera e sistemi di controllo del mare.
“Una cosa piuttosto preoccupante è che capita abbastanza spesso di venire a conoscenza che all’interno del centro ci sono tunisini minorenni. L’ultima volta è successo recentemente: 20 sono stati sottoposti all’accertamento della minore età: 15 su 20 sono risultati minori. Quando vengono accertati poi vengono tirati fuori, ma in teoria dovrebbero essere tenuti fuori dal centro a prescindere.”
Come vengono tirati fuori questi minori? “In teoria si dichiarano loro minorenni, e sta poi agli operatori che ricevono la dichiarazione far partire l’iter che porta all’accertamento della minore età, durante il quale i ragazzi non dovrebbero rimanere nel Cpr.” Ad oggi non è possibile sapere se, nel corso del tempo in cui il Cpr è stato aperto, siano stati anche effettivamente deportati minori, in spregio alle leggi internazionali. Ma il legittimo dubbio sorge.
Minorenni o maggiorenni, le condizioni di vita all’interno del centro sono tutt’altro che buone. Tanto per cominciare, nel centro non sono attivi tutti i settori disponibili. “Ad esempio non ci sono le porte dei bagni. Ci sono state delle rivolte a fine dicembre, quindi da lì hanno deciso di togliere tutto quello che potevano togliere. Con la scusa del fatto che all’interno del centro ci sono solo uomini all’interno la privacy non serve, a quanto pare.”
Un grave problema è rappresentato, secondo L., anche dall’esiguità della forza lavoro del centro. “Ci sono 2 operatori per ogni turno di giorno e 1 la notte. Questa cosa influisce in modo importante per la libertà di corrispondenza con l’esterno. C’è stata una sentenza di recente, sulla libertà di corrispondenza e telefono, perché in questo punto dovrebbe essere possibile avere il proprio cellulare in determinate condizioni.”
Chi è internato in un Cpr ha infatti teoricamente diritto a usare il proprio cellulare, secondo un’ordinanza del tribunale di Milano dello scorso 15 marzo, che ha accolto il ricorso di un prigioniero tunisino. Nel Cpr di via Corelli è prassi sequestrare i cellulari degli internati al loro arrivo. “Il cellulare non viene dato agli ospiti e poi lasciato liberamente tutto il giorno, ma viene concesso solo per poche ore. La mattina, per le chiamate nazionali, possono usare i telefoni fissi a scheda del centro. Le schede si devono comprare, e il pocket money che viene dato loro è di 5 euro ogni due giorni — devono decidere se usarlo per chiamare o mangiare qualcosa tipo uno snack, sigarette, eccetera. Questa cosa del telefono è abbastanza importante: la pronuncia è stato un bel passo avanti, nonostante sia stato necessario andare per vie legali.”
Il problema è l’effettiva implementazione pratica di questa cosa. L. ci fa notare come nel centro ci siano troppi pochi operatori, e questa cosa influisca sulla vita degli internati. “I telefoni vengono lasciati al pomeriggio per un paio d’ore su richiesta, ed essendoci pochi operatori durante la giornata fondamentalmente si devono prendere la briga di dare il telefono alla gente, portare i tamponi all’ospedale, fare qualsiasi altra cosa come portare cibo, eccetera. Quei pochi operatori sono oberati di lavoro, il diritto al telefono non è immediato che sia rispettato. È dura che praticamente funzioni.” L’appalto per la gestione della struttura è stato vinto a febbraio 2020 da Versoprobo e Luna Scs, società con esperienza nella gestione di attività d’accoglienza ma anche strutture turistiche — la partecipazione di Versoprobo aveva causato polemiche visto che era stata tra i partecipanti alla grande manifestazione antirazzista “Insieme senza muri” del 20 maggio 2018.
I vari appelli emessi negli scorsi mesi, come quello della Camera penale di Milano dello scorso dicembre, sono purtroppo caduti nel vuoto. All’epoca, l’associazione dei penalisti aveva parlato senza mezzi termini di “situazione disumana” nel centro di permanenza per il rimpatrio. “Gli appelli si fanno, e poi la risposta è che il Cpr arriva da una decisione legislativa, non è mai responsabilità di nessuno, e alla fine per la chiusura dipende dall’alto. Questa cosa fa cadere tutti gli appelli possibili nel nulla.” La situazione disumana, dunque, continuerà, tra il beneplacito del governo e il dissenso poco convinto della sinistra istituzionale milanese, che come emerge dalle dichiarazioni e dal comportamento del sindaco Sala sembra non avere intenzione di schierarsi con decisione dalla parte dei diritti umani.
Segui Stefano su Twitter