Letta non salverà il Pd dall’irrilevanza
Il Pd non è in grado di discutere di politica, assorbito com’è dalla logica della responsabilità — molto comoda dato che gli permette di stare sempre al governo
in copertina, foto via Flickr
Il Pd non è in grado di discutere di politica, assorbito com’è dalla logica della responsabilità — molto comoda dato che gli permette di stare sempre al governo
Alla fine, com’era previsto, Enrico Letta ha deciso di candidarsi alla carica di segretario del Partito democratico. L’ex presidente del Consiglio ha annunciato la propria decisione con un video molto spirituale su Twitter, in cui ha dichiarato di credere “alla forza della parola, al valore della parola. Chiedo a tutti coloro che domenica voteranno di ascoltare la mia parola.” Letta parlerà domenica al conclave all’assemblea del Pd, dalla quale dovrebbe uscire segretario con una maggioranza molto larga. In quella sede dovrebbero essere chiariti anche gli ultimi dubbi sulla durata del suo mandato: Letta aveva fatto sapere che andare al congresso del partito alla scadenza naturale della legislatura interna nel 2023 sarebbe stata una condizione necessaria per il proprio consenso, e probabilmente sarà così.
Nessun contenuto politico effettivo
Il futuro segretario non ha detto una parola sui contenuti politici che immagina per la propria segreteria, preferendo calcare la mano sul proprio “amore per la politica” e per il senso di responsabilità che lo ha portato a prendere in mano un partito in fiamme. Nelle ultime settimane il Pd è stato così completamente assorbito dalle politiche interne da non sembrare nemmeno accorgersi di quanto sta succedendo al proprio esterno: prima con la — giusta — polemica sulla mancanza di rappresentanza femminile nel governo; poi con le clamorose dimissioni di Zingaretti, arrivate non per idee politiche ma per pure trame di potere su chi e come dovesse comandare nel partito, completamente slegate da qualsiasi contenuto che riguardasse non le correnti interne ma le sigenze delle persone che in teoria un partito dovrebbe rappresentare.
Anche i primi interventi di Letta sono tutti concentrati ad affrontare il nodo delle dinamiche interne del Pd piuttosto che costruire una proposta politica che poi qualcuno potrebbe addirittura pensare di votare. Letta si è profuso in spiritualità — nel suo intervento su Twitter si è spinto a dire che cerco “la verità nei rapporti tra di noi per uscire da questa crisi — La “crisi” di cui parla Letta da cui vuole uscire è infatti quella in cui è impantanato il suo partito senza futuro, non certo quella del paese che combatte contro una pandemia — un disinteresse che, oltre che poco intelligente a livello politico, potrebbe anche risultare insultante a chi ha perso vita e lavoro per motivi di virus e non di corrente. Nel suo intervento a Propaganda Live di ieri, Letta ha semplicemente detto che intende “imprimere una svolta” — non a livello di proposte politiche ma riguardo alle dinamiche interne del partito.
Letta sembra dunque condividere quello che ormai è il principale assunto politico del Pd: la convinzione che non serva affatto assumere una qualsivoglia posizione politica o ideologica, — l’unica cosa importante è stare al governo e cercare di puntare sulla propria presunta presentabilità e competenza, offrendo la propria “responsabilità” — forse il principale vocabolo utilizzato da Letta nella propria candidatura — al paese e ai cittadini. La scommessa è che questo senso di responsabilità verrà poi riconosciuto e apprezzato dal paese.
Il sospetto e l’impressione che poi il paese coglie è però che questo senso di responsabilità esasperato nasconda una voglia di stare al potere a tutti i costi. Gianni Cuperlo ha fatto giustamente notare che negli ultimi 15 anni il Pd non ha vinto un’elezione politica, e che ciononostante in 11 degli ultimi 15 anni il partito sia stato al governo. La creazione dell’esecutivo Draghi ha costituito il vertice più basso di questa parabola ultragovernista: per la smania di fondare l’ultimo governo tecnocratico di responsabilità nazionale, ci si è rimangiati in 48 ore anche l’ultimo baluardo che aveva una parvenza di ideologia di centrosinistra: la promessa che non si sarebbe mai andati al governo con forze sovraniste e fascistoidi come la Lega di Salvini.
Il passato di Letta fa ben sperare?
Tutto fa pensare che la segreteria Letta sarà una custode dell’allineamento a Draghi ancora più fedele rispetto a quella di Zingaretti: per molti versi Draghi e Letta condividono anche la stessa formazione politica — Letta è stato il figlioccio politico di Beniamino Andreatta, grande protagonista insieme a Draghi della stagione di privatizzazione degli anni ‘90 dalle stanze del ministero del Tesoro. Difficilmente, insomma, la segreteria Letta potrà dare ragione a chi spera in qualche tipo di svolta a sinistra da parte del Pd. Se possibile, Letta è stato un anticipatore della linea responsabilista e moderata che oggi attanaglia il Partito democratico, e ne è stato la prima incarnazione dopo il trauma del governo Monti. Nel 2013, il presidente della Repubblica Napolitano gli aveva conferito la carica in quanto “sola prospettiva possibile” dopo le elezioni del 2013: quella di “una larga convergenza tra le forze politiche che possono assicurare al governo la maggioranza in entrambe le camere” — le famose larghe intese, che hanno cambiato nome ma esistono ancora oggi.
È utile ricordare che Letta ha partecipato alle primissime primarie del Pd — quelle che incoronarono segretario Walter Veltroni… — arrivando terzo e figurando indiscutibilmente come un candidato “di destra:” tra i suoi sostenitori, ad esempio, c’era l’ex ministro dell’Interno e presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Erano tempi in cui a Letta veniva contestata la parentela con Gianni Letta, eminenza grigia della famiglia e dei governi Berlusconi. Anzi, si può dire che fu proprio il governo di Grande coalizione che fu guidato da Letta a inscatolare in modo definitivo il Partito democratico nella retorica della responsabilità, nell’allontanamento dagli investimenti pubblici, e poi, con l’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria, nell’allineamento a quella che alle precedenti elezioni veniva chiamata “agenda Monti.”
Anzi, forse se c’è un documento che più di ogni altro ci permette di prevedere il Pd di Enrico Letta è il pamphlet pubblicato dal suo governo al termine dei primi 100 giorni di governo (ancora disponibile solo su Internet Archive), che riassume non solo quello che il governo aveva fatto, ma anche quello che Letta riteneva più importante: è dato ampissimo spazio e grande preponderanza alla credibilità del governo italiano e al ruolo della politica — in seguito alle ferite mai sanate inferte alla democrazia italiana da Forza Italia, e in risposta all’allora ancora fiorente retorica anti–casta del Movimento 5 Stelle — ma si parla anche di “saldare i debiti,” in modo “da creare lavoro,” si parla molto di IMU, dei 450 milioni all’edilizia scolastica che sono molto belli ma sono messi a fianco ai 100 milioni per i campanili — e per fortuna anche di cose molto serie e che sembrano essere uscite dal dibattito politico completamente, come il problema del sovraffollamento delle carceri.
Letta riuscirà almeno a ridare pace all’interno del partito? Nonostante l’obiettivo di Letta sia ridurre il potere dei capricci delle correnti sul Pd e non intenda creare una nuova corrente dei “lettiani,” è indubbio che il suo ingresso nel partito dalla porta principale farà salire alcune personalità politiche e scendere altre. Ad esempio la sua spin doctor Monica Nardi, l’ex eurodeputata Alessia Mosca, l’economista Andrea Garnero, l’autore di Le potenze del capitalismo politico Alessandro Aresu, che al momento è anche nello staff dei consiglieri di Mario Draghi. Sulla concordia interna pesa il sospetto che Base riformista, la corrente di ex renziani, stia lavorando per sabotare definitivamente il partito e favorire la sua cannibalizzazione da parte di Renzi, partendo da destra, per annientare quello che resta dell’autoproclamato centrosinistra italiano.