Urbanistica di genere, come si costruisce una città inclusiva

Dall’azione di Non una di Meno al progetto “Sex & the City” delle architette Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, anche la città può essere letta attraverso una prospettiva di genere

Urbanistica di genere, come si costruisce una città inclusiva

di Emanuela Colaci e Giorgia Fenaroli
in copertina, foto di Non Una Di meno – Milano.
All’interno, foto Emanuela Colaci

Dall’azione di Non una di Meno al progetto “Sex & the City” delle architette Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, anche la città può essere letta attraverso una prospettiva di genere

Secondo l’ultimo censimento di “Toponomastica femminile,” basato sui dati del Comune di Milano, in città ci sono in totale 4.250 luoghi pubblici, tra strade, vie e piazze. Di questi, soltanto 141 sono intitolati a donne. Quelli dedicati agli uomini sono 2.538, quasi 20 volte di più. Le donne vengono dopo i nomi di montagne, di fiumi e persino dei fiori. Se poi ci si sofferma sui criteri di classificazione delle intitolazioni, si scopre che 47 strade sono dedicate a Madonne, sante, religiose, benefattrici. Meno delle figure politiche e storiche, che sono 35. Solamente due vie sono intitolate a scienziate e 7 alle artiste.

Per celebrare l’8 marzo, giornata di lotta e di sciopero femminista, le attiviste di Non una di meno (Nudm) hanno modificato le targhe di diverse le strade di Milano, che hanno cambiato nome per celebrare la storia delle donne. “Piazzale Luigi Cadorna” è diventato “piazza Rita Hester,” donna afroamericana e transgender assassinata nel 1998 in Massachusetts. “Via Mogadiscio,” capitale somala, è diventata “piazza Isabella Marincola,” antifascista di origine somala. “Le vie e le piazze della nostra città sono quasi sempre dedicate a uomini e a persone bianche,” hanno scritto le attiviste sulla loro pagina Facebook. Rita Hester, Sylvia Rivera, le sorelle Mirabal, Ipazia, Rossana Rossanda, Marielle Franco, Tina Modotti: sono solo alcuni dei 21 nomi delle donne scelti per l’azione femminista — e se passeggiando per il centro avete letto “via della Figa,” non avete avuto un’allucinazione.

“Questo 8 marzo abbiamo deciso di modificare la toponomastica, scegliendo alcune donne e persone Lgbtq+ da ricordare nello spazio pubblico. Via per via, piazza per piazza, butteremo giù il muro dell’invisibilità dietro al quale, da secoli, vengono relegate,” ha spiegato Non Una Di Meno. Il collettivo femminista non è nuovo ad azioni simboliche e di protesta che intervengono in modo diretto sullo spazio pubblico. Pochi giorni fa Nudm ha “messo lo smalto” fuxia al dito medio di Cattelan in piazza Affari, per denunciare la condizione delle donne in questo momento di crisi economica che, “raccontata e gestita soprattutto dagli uomini, le colpisce in modo particolare”. Nel 2019, le attiviste avevano coperto di vernice rosa la statua di Indro Montanelli all’ingresso dei giardini pubblici, dedicando il luogo a Destà, la bambina etiope di 12 anni che il giornalista sposò durante la guerra. Il loro intento è quello di occupare e modificare lo spazio pubblico per restituire visibilità alle donne, troppo spesso relegate nello spazio privato.

Non è solo Non una di meno a notare come l’urbanistica milanese sia sbilanciata — e non solo per quanto riguarda i nomi delle vie. Ci sono diverse iniziative che affrontano la questione per quanto riguarda il capoluogo lombardo e in generale sulle nostre città contemporanee, chiedendosi che ruolo abbiano avuto i rapporti di genere nel dare loro la forma che conosciamo. “Quanto è rilevante che gli spazi pubblici siano occupati da donne?” È una delle domande di ‘Indagine su Milano,’ il questionario di ricerca del progetto “Sex and the City 2020,” un’idea delle architette Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro. “Più risposte otterremo e più capillare e variegata sarà la sua diffusione attraverso diverse fasce, più accurata sarà la ricostruzione del quadro generale, e più precise potranno essere le politiche da mettere in campo per rendere Milano una città capace di accogliere le differenze e riconoscere le necessità di tutte e di tutti,” scrivono le archittette. Il progetto, che ha vinto il concorso del Comune per l’Urban center, in collaborazione con Triennale Milano, riflette su come la città risponda alla questione di genere e sul fatto che l’intersezione tra questo tema e l’urbanistica sia poco esplorata. “Questo non vuol dire occuparsi soltanto dei femminismi ma di tutto ciò che è ritenuto diverso da una normalità e che va oltre l’opposizione maschio–femmina,” sottolinea Muzzonigro.

La città letta attraverso la prospettiva di genere spiega i problemi degli individui obbligati a vivere secondo regole sociali e culturali attribuite per la loro appartenenza di genere. Il peso eccessivo sulle donne del lavoro domestico a discapito della carriera ne è un esempio: se le donne non lavorano, non possono vivere la città come gli uomini. “Storicamente la città è costruita dagli uomini per gli uomini,” spiega Giulia Custodi, dottoranda in Urbanistica all’Università Paris 4. “Le donne la vivevano di giorno per assolvere ai compiti di cura dei bambini e della casa, mentre la sera era esclusiva degli uomini. Il fatto che le donne si sentano ancora insicure di notte è un retaggio culturale, inculcato dal corrispondere un ruolo di genere.” Ma che le donne siano meno presenti negli spazi pubblici è un dato vero ancora oggi. “L’unico modo per accorgersene è contare,” spiega Custodi. “È come se esistessero degli ‘occhiali di genere’: quando te li metti ti rendi conto che sono più gli uomini delle donne.”

Il modo di vivere la città cambia a seconda del proprio genere, del proprio status economico, del lavoro che si svolge, dell’appartenenza sociale. E così cambia anche il concetto di sentirsi al sicuro in un determinato spazio. “La sicurezza è sempre una percezione soggettiva, legata alla propria esperienza personale,” dice Andreola. Non si tratta quindi di costruire una città “sicura,” quanto una città “inclusiva,” a misura di tutti. Questo processo però è minacciato dai numeri allarmanti sulla violenza di genere, una cultura della possessione in cui la figura maschile predomina sul genere femminile che invade soprattutto gli spazi privati. Nel 2020, le vittime di femminicidio sono state 120, con una media di 2 donne uccise a settimana. Nei primi tre mesi del 2021, la media resta costante. Muzzonigro immagina la mappa dei ‘problemi di genere’ come “una serie di puntini rossi legati all’ambiente domestico dove avvengono gli abusi.” Per arginare queste sacche di violenza privata, ripensare i quartieri diventa fondamentale. “Abbiamo bisogno di presidi che attirino le donne fuori dalla spirale di abusi, come dei magneti,” dice l’architetta.

Ed è proprio questa l’importanza di costruire nel tessuto urbano dei luoghi positivi. “L’unico modo per costruire una città davvero inclusiva è che ci siano dei posti attivi dal punto di vista culturale ma che siano anche fisicamente un luogo di ritrovo e accoglienza,” dicono le architette. Nel loro progetto hanno individuato dei punti positivi già esistenti. Sono la Casa delle donne e la Libreria delle donne a Milano, Lucha y siesta e Tuba a Roma e la Casa delle donne a Parma. “Sono nati tutti per colmare una mancanza di servizio,” dicono le architette. I luoghi negativi sono in primis quelli in cui c’è una forte zonizzazione delle attività, ad esempio un centro città produttivo e quartieri residenziali in cui si torna a dormire. “Questo modello, che è quello delle città americane, rappresenta il patriarcato perché allontana anche fisicamente le donne dalle attività produttive, costringendole a quelle di cura,” dicono le architette. “Milano, invece, ha un grande problema che si chiama gentrificazione: il centro è ormai accessibile solamente a una fascia sociale e la separazione tra le classi crea una mancanza.” Spesso il disegno urbanistico delle periferie nega i contatti sociali tra gli abitanti. “Pensiamo al viale di Famagosta o ad Abbiategrasso, dove la distanza tra gli edifici è siderale: ci sono blocchi isolati di case attraversati da stradoni dove sfrecciano le macchine. Oppure a Gratosoglio, dove non ci sono luoghi di aggregazione per creare inclusività,” spiega Andreola.

Una città diventa inclusiva quando l’organizzazione degli spazi prende in considerazione più punti di vista, non solo quello di genere. Si chiama intersezionalità: “Sia l’urbanistica che l’architettura si devono reinventare. Dovrebbero essere reimpostate tenendo conto dei problemi di ecologia, di classe, di tensione fra il centro e le periferie,” dice Custodi. La ricercatrice ha già sperimentato metodi di indagine ‘sul campo’ con la raccolta di interviste e dati di residenti e cittadini nel caso di studio di un parco di Le Havre, a Parigi. L’approccio partecipativo è nemico della semplificazione. “Nel caso dell’illuminazione di un parco, si deve conoscere il contesto in cui si inserisce. Quindi capire se per gli abitanti è importante illuminare tutto il parco o solo un percorso. Oppure la forma, lasciare la visuale aperta o creare zone di protezione con gli alberi? Non sempre tutto è valido in maniera mainstream, dipende dagli spazi che abbiamo di fronte,” dice l’urbanista. Muzzonigro e Andreola hanno adottato lo stesso approccio partecipativo nel questionario che si occupa di capire i problemi dell’individuo (indifferentemente dal genere, sesso, età, lavoro, condizione sociale) a Milano: “Il ruolo dell’architetto è fondamentale per fare sintesi tra diverse voci, che deve includere anche quelle dal basso.”

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