Il ministero dell’Economia ha firmato segretamente un contratto con la società di consulenza, nota per aver favorito l’epidemia di oppioidi negli Stati Uniti e per aver lavorato con il regime saudita
Il ministero dell’Economia ha firmato nei giorni scorsi, segretamente, un contratto con la società di consulenza McKinsey per la riscrittura del Recovery Plan. Secondo le ricostruzioni giornalistiche, sarebbe stato il ministro Daniele Franco a contattare la società per accelerare la stesura del piano, che deve essere consegnato alla Commissione europea entro fine aprile. I termini del contratto non sono noti ma, secondo quanto scrivono Roberto Mania e Tommaso Ciriaco su Repubblica, dalla consulenza McKinsey dovrebbe ricevere “soltanto una sorta di rimborso spese.”
La notizia è stata data ieri in esclusiva da Radio Popolare, e stamattina è stata ripresa da alcuni quotidiani — in particolare il Fatto Quotidiano, che ha scelto di metterla in prima pagina. Ma la rivelazione non sta suscitando lo scalpore che meriterebbe: è piuttosto grave, infatti, che nella stesura di un piano cruciale per il futuro del paese, come quello che deve pianificare l’impiego dei 209 miliardi in arrivo dall’Unione europea, sia coinvolta a una società privata di consulenza. Ancora più grave è il fatto che la stipula del contratto sia avvenuta segretamente, senza che il presidente del Consiglio mostri l’intenzione di renderne conto al Parlamento e all’opinione pubblica.
Ma soprattutto è curioso che il governo dei “competenti,” con nomi tecnici affidati ai posti chiave proprio per la gestione del Recovery Fund, scelga di rimettersi a una consulenza esterna per assolvere il compito principale per cui è stato nominato. L’insoddisfazione di alcune forze politiche per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza realizzato dal governo Conte II, infatti, è stata tra i motivi principali della crisi di governo: il PNRR è stato variamente accusato di essere disorganico, senza “visione,” e il principale sponsor del governo Draghi, Matteo Renzi, ha auspicato più volte una sua “completa riscrittura” (dicendo tra l’altro che “una buona squadra scrive il Recovery in tre giorni”).
Scegliendo di affidarsi a McKinsey, il governo Draghi ammette che i propri ministri non sono in grado di realizzare autonomamente ciò per cui sono stati salutati, appena un mese fa, come salvatori della patria. La politica e il parlamento vengono esautorati da più livelli di tecnocrazia: prima dai ministeri-manager come Cingolani e Colao — che per un decennio ha lavorato proprio per McKinsey — e poi dalle super società di consulenza. Eppure, quando Conte aveva proposto di affidare la scrittura del piano a una “governance” di sei “super manager” era stato duramente attaccato con l’accusa di voler scavalcare i ministri e il Parlamento. Ora invece la notizia cade nel vuoto, e non risulta che Renzi stia parlando di “vulnus democratico.”
Appena pochi giorni fa, su Repubblica si leggeva che Draghi “ha fretta” e quindi ha deciso di scrivere “personalmente” il nuovo Recovery Plan, insieme al ministro Franco e a “un gruppo ristrettissimo di consiglieri tra i quali il bocconiano Francesco Giavazzi e l’esperto di diritto amministrativo comparato Marco D’Alberti, professore alla Sapienza di Roma.” Evidentemente non è così, e anzi, come scrivono sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto e Carlo Di Foggia, altri colossi internazionali della consulenza sarebbero al lavoro con il governo per la revisione del piano. McKinsey dovrebbe avere soltanto un ruolo di “supporto” alle scelte, fornendo dati e analisi di impatto sui progetti disegnati dal governo, senza entrare nel merito delle scelte “politiche.”
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La cesura tra scelte tecniche e politiche, però, non è mai netta, ed è difficile immaginare una consulenza puramente “neutra,” specialmente se si guarda alla storia di McKinsey. La società è nota a livello internazionale per essere stata alle spalle di numerose decisioni politiche discutibili, inquadrabili sul piano economico nell’alveo del neoliberismo più sfrenato. Negli ultimi decenni, specialmente negli Stati Uniti, le amministrazioni pubbliche si sono affidate sempre più pesantemente alle società di consulenza, che hanno avuto un ruolo rilevante nella progressiva trasformazione della politica in management.
Daniel Markovits, autore di The Meritocracy Trap, attribuisce a McKinsey la responsabilità di aver esacerbato le disuguaglianze sociali negli Stati Uniti, dove peraltro la società di consulenza è stata condannata a pagare quasi 600 milioni di dollari in risarcimenti per il proprio ruolo nell’epidemia di oppioidi che ha causato (e continua a causare) decine di migliaia di morti all’anno: l’azienda ha lavorato infatti con la casa farmaceutica Purdue Pharma — riconosciuta poi colpevole di tre reati federali — per aumentare le vendite del farmaco oppioide Oxycontin, incoraggiando i medici a prescriverlo in dosaggi sempre più potenti anche quando non era necessario. McKinsey ha anche collaborato attivamente con l’amministrazione Trump nelle politiche repressive contro l’immigrazione — migliorando “l’efficienza” dell’ICE e consigliando i modi migliori per risparmiare soldi con la detenzione dei migranti — mentre da qualche anno è sta aiutando il regime saudita nelle proprie operazioni di maquillage mediatico, stilando un rapporto in cui si misurava il “sentimento” online nel confronto delle operazioni saudite — arrivando ad individuare, con nomi e cognomi, opinionisti e dissidenti che pubblicavano, in larga parte su Twitter, opinioni sgradite alla corona saudita. Il rapporto, che McKinsey nega sia stato scritto su ordine del governo, è quello che portò alla creazione della squadra di troll che, tra gli altri, perseguitava Jamal Khashoggi. Insomma: proprio il tipo di persone a cui vorreste affidare il più grande piano di investimenti pubblici dal Dopoguerra.
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Nel proprio discorso di insediamento al Senato, Draghi ha riconosciuto la “grande mole di lavoro” realizzata dallo scorso governo sul PNRR, dicendo di volerlo “approfondire e completare.” La nomina di consulenti come Giavazzi e, ora, la decisione di affidarsi a una consulenza di McKinsey, indica chiaramente la direzione in cui andrà questo approfondimento: con ogni probabilità il Recovery Plan italiano seguirà l’agenda più classica del neoliberismo statunitense — alla faccia di tutti coloro che in questi mesi hanno fantasticato di un Mario Draghi “keynesiano” — sprecando l’occasione di impiegare i 209 miliardi del Recovery Fund per sanare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali del paese.
EDIT 7/03 8.30: In risposta al polverone giornalistico che si è sollevato in seguito alle rivelazioni sul caso, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato uno scarno comunicato stampa, in cui si chiarisce che “gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia” e che il supporto di McKinsey riguarda soltanto “l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali ‘Next Generation’ già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano” — qualsiasi cosa ciò significhi. Il ministero chiarisce inoltre che il contratto con la società di consulenza ha un valore di 25 mila euro e che le informazioni relative “saranno rese pubbliche.”