Zingaretti doveva salvare il Pd, invece l’ha messo nel congelatore per due anni
Il segretario dimissionario aveva ereditato un partito dilaniato dalle correnti interne e dalla riottosità dei liberisti renziani — e lascia un partito dilaniato dalle correnti interne e dalla riottosità dei liberisti renziani
in copertina, foto via Facebook
Il segretario dimissionario aveva ereditato un partito dilaniato dalle correnti interne e dalla riottosità dei liberisti renziani — e lascia un partito dilaniato dalle correnti interne e dalla riottosità dei liberisti renziani
Il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti ha annunciato a sorpresa le proprie dimissioni, con un post su Facebook in cui esprime la propria vergogna per il fatto che da “da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni.” Il tono del post è recriminatorio e velato di sfumature passivo-aggressive — “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità.” Il segretario si lamenta sostanzialmente delle critiche a suo carico: “Mi ha colpito invece il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni.”
Che cosa lascia Zingaretti al Pd?
Le dimissioni di Zingaretti non arrivano in seguito a una divergenza politica con un’altra parte del partito — magari su un argomento di rilievo nazionale come il sostegno al governo Draghi o la gestione della pandemia — ma dopo una polemica che sembra del tutto artificiale, costruita sulla seccatura per la presenza di un qualche tipo di dibattito all’interno del partito e che pare dettata puramente da noia, come un messaggio astioso scritto sulla chat degli amici al ritorno dall’ennesima serata noiosa al bar. Quale spunto costruttivo si può trarre da questo messaggio di dimissioni di Zingaretti? Nessuno. Al massimo, si può avere la conferma del fatto che nel Pd non esiste una linea politica, ma che l’anima del partito consista semplicemente nel mantenersi decorosi: Zingaretti ha deciso che il dibattito all’interno del partito non era più decoroso per i suoi gusti — poltrone? orrore — e ha preferito ritirarsi borbottando.
Le dimissioni di Zingaretti arrivano in un momento di grande tensione nel partito, esplosa soprattutto dopo l’insoddisfazione per la divisione delle cariche ottenute con la spartizione dei posti disponibili all’interno del governo Draghi. Ci sono state lamentele molto serie in merito, come quelle della componente femminile del partito che per bocca dell’ex ministra Madia aveva definito “machista” la gestione della leadership da parte della segreteria. Ma sono state anche settimane di gaffe o attacchi alla figura stessa del segretario, colpevole di aver confuso “Pd” con “Pci” durante una trasmissione radiofonica e soprattutto di aver sostenuto Barbara D’Urso con un tweet del 24 febbraio, quando il segretario aveva dichiarato che D’Urso ha “portato la politica tra la gente,” in una dichiarazione forse goffa ma che almeno testimoniava una presa di coscienza della torre d’avorio in cui il Pd si è chiuso rispetto alle classi lavoratrici del paese — che si sentono senz’altro più vicine a Barbara D’Urso che alla proposta politica del Pd.
Quale eredità lascia, Zingaretti? Non si può davvero dire che abbia dato un grande contributo alla storia del progressismo italiano. Il presidente della regione Lazio ha preso in mano due anni fa un partito agonizzante con la promessa di farlo ritornare a una parvenza di stabilità e normalità dopo quattro anni di gestione Renzi e l’impalpabile interregno di Martina che l’aveva portato al suo minimo storico dopo l’effimero successo delle elezioni europee del 2014 — ere geologiche fa. Si può dire che quella promessa sia fallita, visto che il Pd non è mai riuscito a superare di netto il 20% alle elezioni o ai sondaggi e a insidiare il principale partito di destra, la Lega, e soprattutto non è riuscito a mettere le basi di una proposta politica capace di farglielo superare in futuro.
Anche a livello politico la segreteria Zingaretti è stata una continua disattesa di ogni velleità di “discontinuità:” il partito è rimasto impantanato nell’estremismo di destra minnitiano per quanto riguarda la gestione dei migranti; non è uscito del solco delle politiche economiche liberiste estremizzate da Renzi e di fatto convalidate dal recente sostegno a Draghi; non è riuscito nemmeno a dimostrarsi integro sul piano delle pari opportunità e dei diritti, non ottenendo progressi sullo ius soli e esponendosi alle accuse interne di sessismo delle ultime settimane, con la componenente femminile sul piede di guerra per la poca rappresentanza al governo che ha rivolto alla segreteria addirittura accuse di “machismo.”
Zingaretti è riuscito infatti nella non facile impresa di prendere un partito bloccato in una crisi di identità e metterlo completamente in congelatore per duetre lunghissimi anni, non proponendo sostanzialmente nulla e facendo dell’immobilismo la propria ideologia, fiducioso del fatto che tirare a campare con una faccia pulita e corrucciata sarebbe stata la strada giusta per offrire al paese un’alternativa a tutto ciò che negli ultimi anni è stato definito populismo, da quello fascistoide della Lega a quello radicato nell’insoddisfazione del centrosinistra che ha alimentato il Movimento 5 Stelle.
Inoltre, sembra rampante nel Pd l’ala composta dagli amministratori, capitanata da Stefano Bonaccini, che in questo momento sembra essere lo sfidante più credibile di Zingaretti. Il governatore dell’Emilia-Romagna, nonostante i continui scivoloni sulla gestione della pandemia e la controversa autoproclamata vicinanza a Salvini con cui “dialoghiamo su cose che hanno senso,” è visto sia dal partito che dall’esterno come uno dei pochi in grado di guidare il Pd, anche perché è stato uno dei pochi in questi anni in grado di sconfiggere la destra in campo aperto.
Comunque vada, è fuor di dubbio che questo ennesimo rivolgimento potrebbe avere effetti deleteri per l’immagine del Pd, vista l’ennesima insensatezza di una crisi interna aperta ancora una volta per ripicche personali piuttosto che su grandi temi — l’opportunità di sostenere il governo Draghi, ad esempio. E soprattutto, che sia l’ennesima vittoria di Renzi, che con il suo siluramento di Conte è riuscito a far crollare non solo il governo e intaccare l’alleanza che lo sosteneva, ma anche a far implodere tutti e tre i partiti che erano rimasti a sostenerlo: Leu, M5S e Pd. Zingaretti potrebbe concludere la sua esperienza biennale a capo del Pd non essendo riuscito ad arricchire il partito né come popolarità nel paese né come contenuti politici su cui costruire qualcosa in futuro — insomma, potrebbe concluderla in un fallimento.
Cosa succede ora?
Non è comunque detto che le dimissioni di Zingaretti siano definitive, e non è affatto facile capire cosa può riservare il futuro. Zingaretti ha annunciato che tra ieri e oggi avrebbe consegnato la lettera di dimissioni alla presidente del partito, Valentina Cuppi. Poi la palla passerà all’assemblea del partito, convocata per il 13 e il 14 marzo, che dovrà decidere se accettare o meno le dimissioni. Se venissero accettate, a quel punto il partito potrebbe prendere la strada del congresso o delle primarie.
Sembra che nessuno, all’interno del Pd, fosse a conoscenza delle intenzioni del segretario. I capi corrente — nel Pd, secondo una ricostruzione del Corriere, se ne possono ufficiosamente riconoscere sette — stanno capendo il da farsi. Una parte importante del partito preferirebbe che Zingaretti ritirasse le dimissioni o l’assemblea gliele rifiutasse, sperando che la mossa del segretario sia stata solo un avventato bluff per compattare attorno a sé il partito — a prezzo di una discreta perdita di residua credibilità davanti all’opinione pubblica del paese. A parole, praticamente tutti — da Zanda a Delrio, da Provenzano al potentissimo Franceschini — stanno chiedendo a Zingaretti di ripensarci e facendo appello alla “responsabilità.”
Non è un mistero che alla finestra ci sia l’area più a destra del partito chiamata “Base riformista,” piena di quinte colonne ex appartenenti alla fazione renziana, guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Questa parte del partito è poco rappresentata nel partito ma molto forte in Parlamento, dato che i gruppi parlamentari erano stati disegnati da Renzi, e spera di poter tornare a contare molto anche nel partito, stufi della coalizione con il M5S e desiderosi di tornare a una “vocazione maggioritaria,” e nelle ultime settimane ha chiesto con insistenza un congresso, evidentemente esasperando il segretario. Va detto che, nonostante nelle ultime settimane Zingaretti si fosse opposto all’opportunità di convocarlo, in un’intervista a Repubblica del 10 gennaio 2020 indicava proprio la convocazione del congresso come una delle sue priorità.
È evidente che anche le dimissioni di Zingaretti sono l’ennesima vittoria di Renzi, che nel corso degli ultimi due mesi è riuscito a centrare tutti i suoi ambiziosi obiettivi: far dimettere Conte mentre si faceva pagare fior di dollari dal regime assassino saudita, far tornare Salvini e Berlusconi al governo, far squagliare il Movimento 5 Stelle e — forse l’obiettivo più desiderato — far implodere anche il Partito democratico. In ogni caso, riesce difficile immaginare che il Pd uscirà da questa crisi non spostandosi ancora più a destra — dato che, per quanto possa sembrare sorprendente, Zingaretti era visto come uno dei membri più di sinistra di quello che ancora oggi si definisce il principale partito di centrosinistra italiano.