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La complessa vicenda che coinvolge l’ex Ilva, i suoi lavoratori e gli abitanti di Taranto è il banco di prova per dimostrare che il nuovo ministero non è soltanto una trovata mediatica

Uno dei primi dossier spinosi che il governo Draghi dovrà affrontare nelle prossime settimane è quello che riguarda l’ex Ilva di Taranto: tre giorni fa il Tar di Lecce ha imposto lo spegnimento degli impianti entro 60 giorni, respingendo i ricorsi di ArcelorMittal contro l’ordinanza firmata dal sindaco Melucci lo scorso febbraio, a causa del rischio sanitario rappresentato dallo stabilimento tarantino. La sentenza — su cui ora dovrà pronunciarsi il Consiglio di Stato, a cui l’azienda ha fatto ricorso — mette a rischio l’accordo raggiunto lo scorso dicembre, che prevede l’acquisto di un ramo della multinazionale siderurgica da parte della partecipata Invitalia, che dovrebbe diventare così azionista di maggioranza e riportare la gestione di ex Ilva nell’alveo dello stato, per la prima volta dopo la dismissione nel 1995. L’accordo ha subito uno stop anche a causa dell’emergenza sanitaria e poi della crisi di governo, e il primo investimento di 400 milioni — inizialmente previsto entro gennaio — non è stato ancora stanziato. La chiusura forzata degli stabilimenti, ovviamente, metterebbe ancora più a rischio questo percorso già accidentato.

La sentenza del Tar è stata commentata ieri da ArcelorMittal, secondo cui la chiusura degli impianti causerebbe un blocco totale della produzione, non senza “rischi per la sicurezza.” In allarme anche Confindustria — che ha chiesto di “evitare” lo spegnimento, anche per non vanificare gli sforzi compiuti finora per evitare il numero di esuberi — e Federacciai, che spera in una sospensiva della sentenza ad opera del governo. Secondo il segretario nazionale Fim Cisl, Roberto Benaglia, “l’azienda ha già comunicato informalmente nel week end l’avvio della messa in sicurezza di alcune attività produttive.” I sindacati dei metalmeccanici hanno scritto una lettera ai neoministri dello Sviluppo Economico, della Transizione Ecologica e del Lavoro, Giorgetti Cingolani e Orlando, per chiedere un incontro urgente per scongiurare il blocco e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro.

Proprio da questo primo dossier si vedrà se il ministero alla Transizione ecologica ha senso di esistere. Creando il ministero per la Transizione ecologica, ci si è concentrati soprattutto sull’assegnargli competenze nell’ambito energetico, sorvolando sul fatto che la transizione ecologica non significa solo conversione da un modello energetico centrato basato sugli idrocarburi, ma anche risanamento delle aree inquinate e in generale una diversa visione dell’economia e della produzione industriale, che renda l’economia italiana sostenibile senza danneggiarla. Ilva sarà la cartina al tornasole perfetta per certificare se dietro questo governo e questo ministero c’è una visione: l’azienda è infatti al tempo stesso un asset irrinunciabile per l’economia italiana e in particolare per i lavoratori di un’ampia zona del Mezzogiorno già svantaggiata; al tempo stesso la struttura necessita di una profonda e urgente riqualificazione per tutelare la salute di decine di migliaia di cittadini di Taranto e delle aree circostanti, costretti a convivere da decenni con una fabbrica molto inquinante.

Per come inteso da Grillo e dal M5S, i suoi poteri avrebbero dovuto sommare in sé quelli del ministero dell’Ambiente e quelli del Mise. Così alla fine non è stato: il nuovo dicastero ha ancora competenze dai confini non chiari, ed è nato evidentemente azzoppato — tanto che diversi parlamentari del M5S si sono sentiti comprensibilmente presi in giro. Ha aree di interesse che si sovrappongono a quelle di altri ministeri — come, appunto, il Mise, nient’affatto archiviato e ora assegnato al leghista Giorgetti, non proprio un entusiasta delle politiche ambientaliste. Come interagirà il nuovo ministero con il Mise, che finora è stato il principale referente per la questione Ilva? E cosa potrà fare, effettivamente, per l’acciaieria? Anche il ministero dell’Ambiente, sulle cui ceneri è sorto quello per la Transizione ecologica, già prevedeva un Dipartimento per la transizione ecologica e gli investimenti verdi, a cui già facevano riferimento quattro direzioni generali: per l’economia circolare; per il clima, l’energia e l’aria; per la crescita sostenibile; e per il risanamento ambientale. Il rischio potrebbe essere quello di svelare che il nuovo ministero sia identico a quello vecchio — e che a cambiare sia stato soltanto il nome: che, peraltro, ufficialmente non è ancora stato modificato, visto che Roberto Cingolani ha giurato come ministro dell’Ambiente.

Nel frattempo l’azienda, nel dubbio, non sta pagando le fatture, mettendo in difficoltà tutto l’indotto: soltanto a Taranto le imprese segnalano uno scaduto complessivo di circa 25 milioni. I lavoratori preparano la mobilitazione: settimana scorsa la trattativa con i sindacati si è bruscamente interrotta, anche perché ArcelorMittal ha deciso di rimandare molte delle questioni più spinose al futuro acquirente pubblico, Invitalia, che però non ha partecipato al tavolo. Per il prossimo 24 febbraio è stato quindi proclamato uno sciopero di 24 ore, per chiedere “chiarezza sul futuro occupazionale, ambientale e industriale del gruppo ArcelorMittal.” Da novembre 2018, data dell’accordo precedente con il Ministero dello Sviluppo Economico, sono 1600 i lavoratori in cassa integrazione straordinaria.

A Taranto prevale un sentimento di rassegnazione: “Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i nostri parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell’azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa,” racconta un delegato sindacale Fiom a Giuliano Foschini. Dall’arresto dei Riva e il sequestro degli impianti nel 2012, con un processo per disastro ambientale che ancora non è arrivato a conclusione, i cambi di proprietà non sono riusciti a scardinare il ricatto tra salute e lavoro che ancora tiene in scacco Taranto. Il sindaco, commentando la sentenza del Tar, ha detto che ora “Taranto è libera dal suo passato,” ma nessuno si illude che la soluzione sia così semplice. O forse qualcuno sì: Matteo Salvini, secondo cui l’Ilva “la risolvi” usando i soldi per le bonifiche e dando lavoro agli operai per realizzare il Ponte sullo Stretto di Messina.

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