I respingimenti a catena sulla rotta balcanica sono illegali: l’Italia dovrà riconoscerlo
Nel 2020 più di 1000 persone sono state respinte in Slovenia, ma a gennaio il Tribunale di Roma ha certificato che si tratta di una pratica illegale. “Tutte le persone che tentano di arrivare in Europa sono esposte al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Respingerle significa espor
in copertina, migranti fotografati attraverso il confine tra Serbia e Ungheria, nel 2015.
Foto CC Gémes Sándor/SzomSzed
Nel 2020 più di 1000 persone sono state respinte in Slovenia, ma a gennaio il Tribunale di Roma ha certificato che si tratta di una pratica illegale. “Tutte le persone che tentano di arrivare in Europa sono esposte al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Respingerle significa esporle a questo rischio”
La rotta balcanica parte dalla Grecia e si fa strada verso Nord, attraversando l’ex Jugoslavia per arrivare nei paesi di lingua tedesca o sul confine italo-sloveno. Da questo percorso passano ogni anno decine di migliaia di persone, perlopiù afghani: nel 2019 i migranti che hanno provato ad arrivare in Europa passando per Serbia, Croazia e Bosnia sono stati almeno 15 mila — rendendola così la seconda porta di accesso al cuore del continente dopo la rotta del Mediterraneo occidentale, tra Spagna e Marocco.
Per arrivare in Italia o in Austria, però, i migranti si trovano a dover attraversare diversi stati che non fanno parte dell’Unione europea, come Bosnia Erzegovina, Albania, Kosovo e Serbia — e la Croazia, che fa parte dell’Ue ma non dell’area Schengen. In questi paesi e lungo i loro confini vengono commessi abusi di ogni tipo da parte delle forze di polizia, e l’accoglienza per i profughi è inesistente o deficitaria. Nelle scorse settimane, una delegazione di europarlamentari italiani, guidata da Brando Benifei, si è recata in visita sul confine tra Croazia e Bosnia, venendo però bloccata dalla polizia croata.
Il gruppo di europarlamentari è comunque riuscito a entrare in Bosnia e a visitare il campo profughi di Lipa, a poca distanza dal confine. Lo scorso 23 dicembre, un incendio ha distrutto la maggior parte del campo, e da allora i migranti sono stati costretti di fatto a bivaccare in accampamenti di fortuna quando non direttamente nei boschi, in situazioni estreme. Benifei, su Facebook, ha scritto di aver trovato “freddo, neve, centinaia di persone accampate e in attesa di risposte. Una situazione disumana, davanti alla quale noi europei non possiamo stare a guardare.”
Il campo di Lipa, però, fa parte di una strategia più ampia di respingimenti e contrasto alle migrazioni. Dal 2018 l’Ue ha finanziato con 88 milioni di euro la Bosnia per gestire campi profughi sul proprio territorio, con l’obiettivo di tenere i migranti fuori dai confini dell’Unione — una strategia simile a quella adottata con la Turchia. I campi sono così gli anelli di una catena che, partendo dalle espulsioni sul confine italiano, riporta i migranti al punto di partenza: in Bosnia o in Serbia, costringendoli a riprovare a superare i confini tra gli stati balcanici, dove rischiano di subire ulteriori abusi da parte delle varie polizie nazionali.
Una pratica illegale
Il 18 gennaio il Tribunale civile di Roma ha dato ragione a Mahmood, richiedente asilo respinto da Trieste verso la Slovenia, e alle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla di Asgi: la prassi delle riammissioni dei migranti in Slovenia è illegale. Si tratta della prima decisione di un Tribunale che sanziona le autorità italiane per responsabilità indiretta nei respingimenti a catena o chain pushback. Questa prassi si riferisce alla complicità delle autorità di diversi Paesi, in questo caso sulla rotta balcanica, di espellere “a catena” i richiedenti asilo fuori dall’Unione Europea, senza verificarne la situazione e impedendo l’accesso alla procedura di asilo.
“Il giudice di Roma ha appurato, consultando tutti i rapporti che abbiamo allegato, che sia una prassi consolidata il fatto che la riammissione non si concluda in Slovenia ma prosegua in Croazia. Poi, nel giro di 24 o 48 ore, la persona si trova alle porte dall’Ue in Bosnia o in Serbia,” spiega a the Submarine Caterina Bove, una delle due legali del richiedente asilo. Quella che inizialmente è una riammissione verso un altro paese dell’Unione europea, diventa un respingimento indiretto, “peraltro passando per trattamenti crudeli, attuati in maniera sistematica dalle autorità al confine croato. Tutte le persone che tentano di arrivare in Europa sono esposte al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Respingerle significa esporle a questo rischio.”
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Il Tribunale si è pronunciato su una situazione nota alle cronache. Il difensore dei diritti civili sloveno aveva dichiarato che “le persone intercettate in Slovenia in modo irregolare non hanno potuto richiedere l’asilo, sono state riportate in Croazia senza nessuna salvaguardia contro il respingimento indiretto fuori dal Paese.” Il 18 ottobre 2020 il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga dichiarava che l’Italia ha effettuato “9935 fermi, 4535 arrivi, 1321 riammissioni e 1124 espulsioni.”
Mentre Lamorgese riferiva in Parlamento sui lavori del ministero e dell’Unione europea per fermare i flussi migratori, Mahmood tentava di arrivare in Italia dalla città di Bihac, partendo dal nord-ovest della Bosnia, con 235 chilometri da percorrere attraversando Croazia e Slovenia. Arrivato a Trieste, Mahmood ha richiesto la protezione internazionale e l’asilo insieme a 4 connazionali, originari del Pakistan, ma in poche ore si è ritrovato dalla stazione di polizia triestina al confine sloveno. I 5 richiedenti sono stati privati dei documenti in modo violento e riportati nel campo di Lipa. Mahmood ha preso poi la strada di Sarajevo, capitale della Bosnia, dove ha vissuto per mesi in un edificio abbandonato. “Siamo in contatto continuo con lui, che è in ansia e aspetta una decisione. Ha consegnato le carte per il visto all’ambasciata di Sarajevo e adesso siamo in attesa di una risposta ufficiale,” racconta Bove.
Le politiche di respingimento al confine italo-sloveno si basano sull’accordo bilaterale firmato tra i due Paesi nel 1996. “Quell’accordo prevedeva la possibilità di riammissioni informali, attuata dalle autorità italiane nel senso di riportare indietro le persone ma senza consegnare loro alcun provvedimento scritto. Quindi i richiedenti non sapevano cosa stesse succedendo, né avevano la possibilità di difendersi. Questa modalità non dovrebbe mai essere consentita per il diritto amministrativo italiano e lede il diritto di difesa delle persone,” spiega Bove.
Adesso è scritto nero su bianco: respingere senza esaminare la situazione individuale del richiedente è illegale. Gli effetti si vedono soprattutto sulla situazione del confine italo-sloveno: “In realtà il Viminale non si è costituito e non ha partecipato al processo, che si è svolto in forma scritta. Non c’è una nota ufficiale del governo ma sappiamo che le riammissioni sono sospese. C’è stata una visita di europarlamentari a Trieste. In quell’occasione sembra che il prefetto abbia confermato questa sospensione,” commenta l’avvocata.
Il caso di Mahmood è uno dei migliaia di respingimenti a catena sulla rotta balcanica iniziato in Italia, proseguito in Slovenia e Croazia e finito in Bosnia. Anche l’Austria è stata recentemente accusata di precludere l’accesso ai richiedenti asilo, con le stesse modalità. Lo ha denunciato l’associazione Asyl a novembre 2020, nel caso di un richiedente asilo marocchino che aveva passato il confine austriaco dalla Slovenia con altre cinque persone. Il gruppo ha dichiarato di essere stato seguito e arrestato da individui in abiti civili, che hanno poi consegnato i richiedenti asilo alla polizia slovena con la Bosnia-Erzegovina come destinazione finale. Durante la seduta del 2 febbraio al Senato Garavini (IV) e Magorno (PD) hanno chiesto di sapere al ministero dell’Interno se si intendesse sospendere la pratica delle “riammissioni informali,” e se non si debba forse avviare un confronto con il governo sloveno.
La pratica dei respingimenti a catena e il diniego dell’accesso alle procedure all’asilo sono diventati un problema europeo sulla rotta balcanica, una situazione in peggioramento dal 2015 dopo la chiusura dei confini europei. “Purtroppo l’Unione europea è assente. È chiaro che il silenzio è più forte di qualunque risposta. Il Mediatore Europeo ha avviato un’inchiesta, certamente la situazione è conosciuta. La mancata presa di posizione è molto grave. Fa pensare che l’intento di frenare gli arrivi sia più importante che tutelare delle vite umane,” commenta Bove. Di fronte ad un dramma umanitario interamente di propria creazione, l’Unione europea non è in grado di rispondere con riforme che garantiscano il rispetto dei diritti umani — ricordiamo che stiamo parlando della stessa Commissione che ha riscritto il significato di “solidarietà” per intenderlo non verso i migranti, ma tra stati europei — per cui, per ora, cerca solo di lavarsi la coscienza: l’ultima operazione è quella di un fondo da 3,5 milioni di euro per i migranti rimasti intrappolati nel cantone dell’Una–Sana, una misura che darà sicuramente sollievo sul territorio, ma che non contribuisce in nessun modo a risolvere il problema a monte.