Cosa significa rifiutare la leva militare a 18 anni in Israele
Abbiamo parlato con Hallel Rabin, la 19enne israeliana che per la propria opposizione a “una perpetuazione di ingiustizia e apartheid” è stata arrestata tre volte
in copertina, grab via
Abbiamo parlato con Hallel Rabin, la 19enne israeliana che per la propria opposizione a “una perpetuazione di ingiustizia e apartheid” è stata arrestata tre volte
“Chi è al potere istituisce una politica di occupazione e oppressione di un’intera nazione. Non prenderò parte a un sistema basato sulla disuguaglianza e sulla paura: viviamo in una realtà che ci spinge alla violenza e io mi rifiuto di farne parte o di tacere.” Hallel Rabin questa decisione l’ha presa a 18 anni, quando arriva il momento, per ogni giovane donna e uomo di Israele, di unirsi ai ranghi dell’esercito e prestare servizio militare. In apparenza sembra una teenager come tante, capelli lunghi, sorriso gentile, una passione per i cavalli. La cesura netta con i suoi coetanei è arrivata all’inizio del 2020, quando Rabin ha scritto la sua dichiarazione di rifiuto, da cui sono tratte queste parole.
Uno stacco che commenta così a the Submarine: “Non so quando ho deciso di firmare un rifiuto ufficiale. All’età di 14 anni ho capito che il problema dell’ingiustizia non è semplice e che militare nell’esercito ha delle conseguenze molto pesanti. A 18 ho scritto la mia lettera al Comitato di Coscienza.” Rabin, cresciuta in una casa liberale del Kibbutz Harduf nel nord di Israele, di anni oggi ne ha 19 ed è già stata incarcerata tre volte — una delle quali durante il Rosh Hashanah, il Capodanno ebraico. Il motivo è sempre lo stesso: si rifiuta di servire nelle IDF, le forze di difesa fondate nel 1948 “per difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato di Israele.” Queste, che prevedono un periodo di leva obbligatorio di 32 mesi per gli uomini e di 24 le donne, conservano alcune esenzioni, tra cui quella storica per pacifismo, eppure il Comitato ha negato la sua concessione alla 19enne. Rabin è un’attivista, condizione da cui i membri hanno intuito una motivazione politica che lei ricusa: “Io credo che tutte le forme di oppressione e occupazione siano invalide, e conducano a uno stato di violenza e disuguaglianza,” scrive dalla sua stanza, dove è tornata a novembre 2020 dopo essere stata rilasciata per la terza volta. “Il mio tempo in prigione? Non è stato così terribile. Sono riuscita ad andare avanti, fare amicizia e sperimentare il significato delle mie scelte in un modo folle e potente. È stata un’esperienza difficile e strana, ma anche speciale ed emancipante.” Il suo gesto, solitario ma con alcuni precedenti, ha contribuito al sorgere di un movimento giovanile contro la leva riunitosi in una nuova e più decisa dichiarazione di rifiuto. Sono sessanta le firme in calce alla “Lettera Shministim,” un documento indirizzato ad alti funzionari israeliani in cui si professa il rifiuto di prestare servizio nell’esercito come protesta contro le “politiche di occupazione e apartheid.” L’iniziativa, che — terza nel suo genere — ricalca il nome ebraico dato agli studenti più grandi delle scuole superiori, denuncia con forza il controllo militare israeliano sui palestinesi nei territori occupati, riferendosi ai casi di Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est come a un “sistema che prevede due diversi livelli di legge; uno per i palestinesi e un altro per gli ebrei.” Sarà stato il linguaggio diretto o la paura di un’ondata di rifiuto, ma il dibattito non ha mai raggiunto il livello pubblico in Israele, e oggi fatica a raggiungere un interesse anche in ambito internazionale. “La nostra lettera non è proprio pubblica… Cose come questa non ottengono molta copertura mediatica qui,” ci spiega Rabin, “il discorso pubblico e la maggior parte della coscienza collettiva stanno cercando di silenziarla, ma abbiamo anche ricevuto supporto e forza da diverse persone che credono in noi.” Le accuse di coetanei e superiori sono di mancanza di patriottismo e sterile opposizione politica, un trattamento simile a quello riservato a chi prendeva parte alle “proteste Balfour” contro il primo ministro Benjamin Netanyahu: per questo molti giovani – soprattutto se non hanno una famiglia come quella di Hallel che li supporti – preferiscono opporre all’obbligo di leva insindacabili motivi di salute.
Pochi mesi fa l’esercito israeliano aveva espresso preoccupazione per il fatto che un terzo dei giovani israeliani non si fosse ancora arruolato per motivi legati alla “salute mentale:” il 32,9% dei giovani ha ricevuto un esenzione dal servizio nazionale obbligatorio nelle forze di difesa, dato che sale al 44,3% per le donne. La direzione del personale del ministero della Difesa ha chiesto ulteriori controlli sulle esenzioni per malattie mentali, suggerendo che molti dei documenti forniti in tali casi siano falsi. Inoltre, una media del 15% dei giovani israeliani abbandona durante il servizio, con una spiccata tendenza maschile — il 47,9%. Nonostante i numeri, i diciottenni che non mettono in discussione il sistema sono la stragrande maggioranza, e spesso vengono inviati nelle zone dichiarate occupate da molti stati sovrani e dalle Nazioni Unite, che quattro anni fa chiedevano con la risoluzione 2334 di porre fine alla politica di insediamento.
“Mentre i cittadini dei Territori palestinesi occupati sono impoveriti,” si legge ancora nella lettera collettiva, indirizzata al ministro della Difesa Benny Gantz, al ministro dell’Istruzione Yoav Galant e al capo di Stato Maggiore dell’IDF Aviv Kochavi, “le élite ricche diventano più ricche a loro spese. I lavoratori palestinesi vengono sistematicamente sfruttati e l’industria delle armi utilizza i Territori occupati come terreno di prova e come vetrina per sostenere le sue vendite. Quando il governo sceglie di sostenere l’occupazione, agisce contro il nostro interesse di cittadini: grandi porzioni di denaro dei contribuenti stanno finanziando l’industria della ‘sicurezza’ e lo sviluppo di insediamenti invece di welfare, istruzione e salute.” Alcuni dei firmatari dovrebbero comparire davanti al comitato degli obiettori di coscienza ed essere inviati alla prigione militare come già Rabin, rilasciata l’ultima volta dopo aver scontato 56 giorni. Tra questi, c’è chi ha anche sottoscritto lo scorso giugno una lettera aperta chiedendo che Israele fermi nello specifico l’annessione della Cisgiordania, supportata dagli Stati Uniti.
I giovani del Paese hanno pubblicato diverse volte delle lettere di rifiuto collettive da quando Israele ha preso il controllo dei territori occupati nel 1967. Mentre per decenni queste si riferivano principalmente al servizio dell’opposizione nei territori occupati, le ultime due lettere Shministim precedenti a questa, pubblicate rispettivamente nel 2001 e nel 2005, vedevano un rifiuto totale di prestare servizio nell’esercito. Nella lettera del 2020, inoltre, compare un tema delicatissimo e mai affrontato prima: quello della Nakba del 1948. “Rovina” in arabo, la Nakba è l’esodo di 700 mila palestinesi avvenuto durante la guerra civile del 1947–48, al termine del mandato britannico, e come conseguenza della guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele. A questo momento si riallacciano le diverse teorie sulla legittimità degli insediamenti ebraici e viceversa sulla giustezza delle pretese arabe, che come il conflitto non trovano risoluzione. Per la prima volta dei giovani israeliani hanno quindi attribuito a uno dei momenti fondanti dello Stato ebraico la creazione di un assetto segregativo sistematico basato su “violenza sistemica e razzismo” che rende la vita dei palestinesi incompatibile con la salute fisica e mentale.
I due sistemi valgono così anche per i vaccini anti-Covid: mentre Israele è uno dei Paesi al mondo con il miglior tasso di vaccinazione, con 200mila iniezioni al giorno e una copertura pari a un milione e mezzo di persone con richiamo incluso su una popolazione di 9 milioni, sono centinaia di migliaia i palestinesi che non riusciranno ad avere accesso alle cure. Con l’eccezione della popolazione araba di Gerusalemme Est e dei medici dei sei ospedali palestinesi dell’area, infatti, gli abitanti arabi non hanno modo di accedere alle cure, e dovranno aspettare le dosi assicurate dal programma umanitario Covax dell’OMS.
Segui Giulia su Twitter
Sostieni the Submarine, abbonati a Hello, World!, la nostra rassegna stampa del mattino.