Perché i legami di Renzi con l’Arabia Saudita sono un problema
L’ex presidente del Consiglio a quanto pare è stato colto di sorpresa dalla decisione di Conte di dimettersi, e ha dovuto interrompere una delle proprie lucrose side gig
L’ex presidente del Consiglio a quanto pare è stato colto di sorpresa dalla decisione di Conte di dimettersi, e ha dovuto interrompere una delle proprie lucrose side gig
Giuseppe Conte ha rassegnato al presidente della Repubblica le proprie dimissioni, e dietro le quinte sono già a pieno regime le trattative e le trame per la formazione di quello che sarà il nuovo governo — servono almeno 7 senatori responsabili in più rispetto al voto della scorsa settimana. Oggi pomeriggio partiranno le consultazioni al Quirinale, che andranno avanti fino a venerdì, quando Mattarella dovrebbe affidare l’incarico di formare un governo alla figura che giudicherà con le maggiori probabilità di riuscita tra quelle indicategli dai partiti — presumibilmente, Conte.
Presumibilmente: nelle scorse ore è infatti già impazzato il totonomi su chi potrebbe essere il prossimo premier se Conte non dovesse riuscire nell’intento una volta affidatogli un primo incarico, o fosse direttamente “impallinato” durante le consultazioni. Da chi? Ovviamente la principale incognita è rappresentata da Matteo Renzi, che sta giocando a carte coperte: secondo diversi retroscena, i partiti di maggioranza sarebbero in attesa di scoprire quale atteggiamento terrà il senatore di Rignano sull’Arno nei confronti di Conte, temendo che proponga al Quirinale un nome che scompagini completamente le carte — come quello di Luigi Di Maio, una proposta che sarebbe fatta apposta per scollare il M5S dal sostegno incondizionato a Conte. C’è chi immagina anche una singolare staffetta: il ritorno di Paolo Gentiloni e l’invio di Conte, al suo posto, al ruolo di commissario europeo. Ci sono poi i soliti nomi di tecnici, come Carlo Cottarelli o Marta Cartabia e, più sullo sfondo, Mario Draghi.
Renzi comunque sta mostrando un certo distacco, forse perché, come ha scoperto Emiliano Fittipaldi in un articolo su Domani, ha affari più remunerativi a cui pensare: siede infatti nel comitato consultivo del FII Institute, un organo statale del governo dell’Arabia Saudita, e nelle prime ore della crisi di governo si trovava proprio a Riad per partecipare a una conferenza. Secondo Fittipaldi, Renzi e il principe ereditario saudita — nonché mandante del brutale omicidio Khashoggi — Mohammed bin Salman, sarebbero in rapporti di stima reciproca. Il senatore di Italia viva ha un ruolo ormai di tutto rispetto all’interno della piattaforma — della quale fanno parte anche diversi altri politici o ex politici occidentali — tanto che “il nome con rimandi fiorentini dell’edizione di quest’anno dell’FII, The Neo-Renaissance, l’avrebbe suggerito proprio lui.”
Non è un mistero che Renzi abbia frequentazioni discutibili con le autorità dell’Arabia Saudita. I primi rapporti risalgono al 2017, ma quest’anno sembra esserci stato un salto di qualità. Renzi è infatti entrato nell’advisory board dell’FII, nella sezione che si occupa di intelligenza artificiale, robotica e cybersicurezza. Gli incontri del board si tengono quattro volte l’anno, e i componenti devono essere presenti fisicamente almeno una volta l’anno — se presenzia a tutti i board previsti, secondo quanto riportato da Fittipaldi, Renzi avrà diritto a 80mila dollari l’anno: ecco anche perché Renzi era fisicamente a Riad nonostante la delicata fase politica italiana. Renzi non sarebbe specializzato nel campo complesso dell’intelligenza artificiale, ma il suo compito sarebbe di dare consigli tecnici “su come usare la cultura nelle città, che è un possibile driver del cambiamento del paese mediorientale,” secondo quanto riporta Domani.
È discutibile anche che i sauditi abbiano fatto un buon affare mettendo Renzi a lavorare su questo argomento: forse si sono lasciati sedurre dalla nota capacità affabulatoria dell’ex sindaco di Firenze, e soprattutto dal suo breve trascorso come documentarista. Se i sauditi avessero avuto più dimestichezza con la televisione italiana si sarebbero forse accorti che la performance di Renzi non è stata proprio degna di un Alberto Angela, visto che il suo progetto “Firenze secondo me” del 2018 ha chiuso con meno del 2% di share — una percentuale di ascoltatori ancora più bassa rispetto a quella di cittadini disposti a votare Italia viva.
Ma questi sono problemi dei sauditi. Il problema più pressante per i cittadini italiani è invece l’opportunità che un politico ancora di primo piano come Renzi sia così invischiato — anche a livello economico: la sua attività viene lautamente retribuita — con una dittatura brutale e influente come quella saudita. Già un anno fa Corrado Formigli gli aveva domandato se “se da senatore italiano si ponesse il problema etico quando tiene conferenze in paesi che violano i diritti umani come l’Arabia Saudita,” al che Renzi aveva risposto che no, sarebbe questo problema sarebbe sorto se lui avesse “fatto parte del governo come ministro o premier.”
Secondo quanto scrive Fittipaldi, Renzi risponde a chi fa notare che Mohammed Bin Salman è responsabile di aver strangolato, tagliato a pezzi e sciolto nell’acido uno dei più noti giornalisti esperti di medioriente del mondo, Renzi “risponde secco che il principe ereditario è in realtà uomo di grandi capacità, un sovrano assai più riformista del padre, e propugnatore di un’Arabia Saudita moderna e più rispettosa del ruolo delle donne.” Questa, in realtà, è una vera e propria falsità diffusa dalla propaganda saudita ma ampiamente smentita dai fatti: le donne sono ancora in una posizione di netta subordinazione e molte attiviste sono oggetto di gravissimi abusi da parte del governo.
A dicembre, ad esempio, le attiviste per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul e Mayaa al-Zahrani sono state condannate a cinque anni e otto mesi di prigione dal Tribunale penale speciale, che, almeno teoricamente, si occupa di reati con finalità di terrorismo. Fortunatamente dovrebbero essere rilasciate tra pochi mesi, ma la loro condanna costituisce un grave affronto ai diritti umani. Le due donne sono state riconosciute colpevoli di “agitazione, aver eseguito un programma politico estero, e aver usato internet per destabilizzare l’ordine pubblico.” Il tribunale ha ridotto le due sentenze a due anni e dieci mesi e ha retrodatato l’inizio delle condanne a quando è iniziata la loro detenzione arbitraria, nel maggio 2018 — per cui le due donne resteranno in carcere per altri tre mesi. Il tribunale ha anche trovato “infondata” la testimonianza di al-Hathloul riguardo alle torture subite durante il periodo di prigionia. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha commentato la notizia dopo poche ore su Twitter, chiedendo la liberazione immediata di al-Hathloul, il cui caso ha raggiunto una maggiore notorietà internazionale.
Al–Hathloul era stata arrestata nel maggio 2018 insieme a Aziza al–Yousef, Eman al–Nafjan, Aisha al–Mana e Madeha al–Ajroush nella seconda ondata di arresti legati alle esponenti più attive del movimento che chiedeva che le donne potessero guidare. Al–Hathloul ha anche condotto campagne contro la legge del “guardiano maschile,” in base a cui ogni donna deve avere un wali, sia esso il padre, il marito, un fratello o un altro parente. Poche settimane dopo anche al–Zahrani è stata arrestata, per aver pubblicato una lettera che un’altra attivista arrestata, Nouf Abdelaziz, aveva scritto proprio nel caso fosse stata fermata dalle autorità. L’ondata di arresti aveva coinciso con una campagna mediatica coordinata con cui l’Arabia Saudita si era vantata dell’espansione dei diritti delle donne, concedendo anche il diritto alla guida, una delle richieste delle attiviste arrestate.
Le azioni dell’Arabia Saudita non sono gravi solo nell’oppressione dei diritti umani in patria, o nell’omicidio di un singolo giornalista — già grosse azioni da ‘scontare’ all’amico di Trump. Dal 2015 Riad guida una coalizione che è impegnata in una guerra sanguinaria contro i ribelli Houthi in Yemen: una guerra che in questi sei anni è diventata la più grande crisi umanitaria del mondo, con l’80% dei 24 milioni di abitanti del paese che ha bisogno di assistenza urgente.
Ma anche se, in modo estremamente cinico, si volesse considerare solo il profilo economico dell’azione del regno e ignorare le sistematiche violazioni dei diritti umani, ci sarebbero gravi problemi. La scorsa settimana è emerso che Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, di proprietà dello stato saudita, dichiara circa la metà del proprio carbon footprint: l’azienda esclude dalle proprie dichiarazioni agli investitori le emissioni di gran parte delle proprie raffinerie e dei propri stabilimenti chimici. I documenti finora prodotti dall’azienda, infatti, riguardano soltanto le attività in Arabia Saudita, e non comprendono i siti internazionali o in comproprietà. Parlando con Bloomberg, l’azienda ha sostanzialmente ammesso “l’errore,” anche se ha dichiarato che i suoi documenti sono “internazionalmente accettati.” Dai report per il 2020 l’azienda dichiarerà le emissioni anche degli stabilimenti finora esclusi, responsabili di circa 55 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 all’anno.
Negli ultimi mesi l’Arabia Saudita si è ulteriormente spesa per cercare di apparire più moderata agli occhi della comunità internazionale — in particolare in vista della nuova amministrazione statunitense, certamente meno vicina a MBS di Trump, che si vantava di “avergli salvato il culo.” L’esempio più recente è il superamento dell’embargo nei confronti del Qatar, che per anni aveva deformato il mercato del Golfo. In questo contesto, l’FII Institute serve esattamente a questo scopo: dare un volto non solo umano, ma pulito, perfino avveniristico all’Arabia Saudita.
L’azione di Renzi sembra dunque ispirata dall’ennesimo tentativo di emulare il suo idolo Tony Blair, che è già stato al centro di diverse polemiche per la sua vicinanza al regime saudita: lo scorso ottobre è emerso come Blair — anzi, il suo “Tony Blair Institute” — abbia incassato 11,8 milioni di dollari dalle casse saudite per la sua opera di “consulenza” nel progetto Vision 2030, un’iniziativa del principe ereditario per diversificare e modernizzare l’economia del regno tramite anche la privatizzazione di numerosi asset statali — azione in cui, effettivamente, Blair ha molto da insegnare.
Mentre Blair però può addurre come attenuante per la sua vicinanza con una delle dittature più sanguinarie del mondo il fatto che non è più in attività nella politica del suo paese, Renzi nei prossimi giorni potenzialmente avrà un ruolo decisivo nella scelta del prossimo capo del governo italiano. È legittimo pensare che potrebbe esserci un conflitto di interessi, visto che nei prossimi mesi bisognerà decidere come investire i 200 e più miliardi in arrivo dall’Ue con il Recovery Fund. Una grande parte di questi fondi dovrebbero andare verso investimenti per uno sviluppo sostenibile: come si concilia questa cosa con il fatto che uno dei principali sponsor del governo è direttamente pagato dal paese proprietario della più grande compagnia petrolifera del mondo? Certo, l’attivismo di Renzi avrebbe ancora più senso se inquadrato nell’insistente voce di corridoio secondo cui il suo obiettivo finale sarebbe farsi eleggere presidente della Nato, in virtù di una mezza promessa fattagli da Barack Obama: fatto che sembra una barzelletta, ma che alla luce della sua frequentazione con il più potente e controverso alleato degli Usa in medioriente acquisisce una nuova luce.