Da dove viene l’islamofobia della “laicità” francese

Abbiamo parlato con Gabriele Proglio, ricercatore di Storia contemporanea e curatore di “Islamofobia e razzismo” per capire come la società europea utilizzi spesso il mito della comunità degli eguali per nascondere la propria xenofobia

Da dove viene l’islamofobia della “laicità” francese

in copertina, foto via Facebook

Abbiamo parlato con Gabriele Proglio, ricercatore di Storia contemporanea e curatore di “Islamofobia e razzismo” per capire come la società europea utilizzi spesso il mito della comunità degli eguali per nascondere la propria xenofobia

Nelle scorse settimane diversi episodi di violenza hanno coinvolto membri della comunità musulmana in Francia. Come dopo ogni evento di questo tipo, si è assistito a un’impennata di reazioni razziste in cui fondamentalisti e islamofobi si alleano per cancellare lo spazio di convivenza tra musulmani e non–musulmani. La battaglia per la laicità intrapresa dallo stato francese è una scusa per attaccare l’Islam, tanto che il CCIF, l’osservatorio che nel paese monitora l’islamofobia è stato chiuso dal governo con il pretesto della sicurezza. I musulmani nel mondo sono 1,9 miliardi e in Francia sono circa il 9% della popolazione — ma per le destre sono tutti fondamentalisti, tutti criminali, tutti migranti che i buonisti di sinistra non smetteranno di voler accogliere. Peraltro, nemmeno a sinistra spesso si riesce a produrre un discorso accurato, approfondito e inclusivo sull’Islam.

Tutto è cominciato con l’omicidio di un insegnante, Samuel Paty, ucciso da un adolescente di origine cecena. L’insegnante aveva citato le vignette di Charlie Hebdo nel corso di una lezione sulla libertà di espressione, nelle settimane in cui si svolgeva il processo per l’attentato del 2015 alla redazione. Charlie Hebdo ha riproposto le vignette oggetto del contendere e un ragazzo pachistano ha compiuto un attacco davanti all’ex redazione, ferendo due persone. La tensione ha continuato a crescere: ad Avignone la polizia ha ucciso un uomo che stava minacciando un’altra persona con un’arma da fuoco — i media avevano riportato che stesse urlando “Allāhu akbar,” ma è stato poi rivelato che si trattava in realtà di un membro di un’organizzazione di estrema destra, Mouvance Identitaire. A Lione un uomo afghano è stato arrestato dopo essere stato individuato mentre attendeva un tram con un lungo coltello. A Gedda, in Arabia Saudita, una persona è stata arrestata dopo aver ferito una guardia del consolato francese. In molti paesi islamici si sta protestando contro Macron da quando ha annunciato una legge e misure restrittive per i fondamentalisti che in realtà colpirebbero anche i fedeli, ma solo quelli musulmani. Dopo l’omicidio compiuto dal ragazzo ceceno Macron ha contattato Putin, non certo un difensore dei diritti umani, per coordinare un’azione comune.

Abbiamo parlato di questa spirale con Gabriele Proglio, ricercatore di Sstoria contemporanea presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Proglio si occupa di memoria coloniale e di condizione postcoloniale in Europa, di storia orale e soggettività, di migrazioni e mobilità nel Mediterraneo. Ha pubblicato e curato diversi libri, tra cui Islamofobia e razzismo. Media, discorsi pubblici e immaginario nella decostruzione dell’altro. Fa anche radio: essendo parte della trasmissione Black In su Radio Blackout ha dimostrato che una riflessione sui temi del decoloniale e del postcoloniale è possibile anche in podcast.

Gabriele Proglio

Professore, cosa sta succedendo in Francia e nei paesi arabi, oltre ai fatti noti a tutti?

Dietro allo scontro tra Macron e una parte del mondo musulmano c’è il tentativo di aggiornare il modello assimilazionista francese. Forse non è corretto usare il termine fallimento per quanto sta accadendo, perché è necessario chiedersi quale fosse il fine ultimo di questo approccio alla cittadinanza. A differenza di quello inglese, basato sul multiculturalismo, e di quello italiano, focalizzato sulla mitologia del sangue, la Francia ha amministrato l’eredità coloniale con uno scambio imposto: la cittadinanza, e quindi l’accesso allo stato di diritto, a fronte di una privatizzazione del credo religioso. A monte di tale concezione, c’è l’idea di un’entità statale, la République, che perseguirebbe un interesse superiore sia in termini culturali che morali. L’universalismo e la laicità di cui parla Macron non esistono come valori di per sé, ma vanno letti nel contesto dei soggetti razzializzati. Il processo di razzializzazione dei corpi non è un effetto collaterale ma, viceversa, l’espressione più evidente di come il sistema economico si esprima nella produzione di soggettività in relazione con la mobilità del lavoro e le trasformazioni del capitalismo. La comunità degli eguali, insomma, non solo non esiste, ma è anzi un’invenzione della cultura francese, bianca.

In aggiunta a ciò, è stato lo stesso Macron a dichiarare l’esaurimento di un modello neoliberista e l’urgenza di ridefinire il ruolo di molteplici soggetti nel controllare e risolvere a proprio vantaggio i vari livelli di crisi che si stanno sovrapponendo: sanitario, securitario, economico, geopolitico, culturale, ecologico. C’è una tensione tra l’idea di un modello di immigrazione che lo stato vorrebbe con esclusione e inclusione differenziale — ossia, in grado di recepire le richieste di lavoro sottopagato — e la capacità del migrante si sottrarsi ai dispositivi confinari. Questa è la chiave per leggere una questione che, ovviamente, non ha come limiti le frontiere nazionali della Francia, ma ha una dimensione globale.

Macron è in campagna elettorale (le elezioni presidenziali si terranno nel 2022). Quando è stato eletto nel 2017 ha ottenuto al secondo turno il il 66,10% contro il 33,90% di Marine LePen, mentre le elezioni municipali dello scorso giugno non sono andate bene per il suo partito. In che modo Macron parla dell’Islam? Ha detto ad esempio che in Francia si deve “strutturare l’Islam.” 

Il presidente francese, in linea con l’aggiornamento del modello assimilazionista di cui ho detto prima, ha usato il termine “separatismo” per definire l’atteggiamento di una parte della comunità musulmana che – a suo dire – vivrebbe in una “società parallela” dove prosperavano il fondamentalismo islamico e la violenza. Per comprendere quanto non sia un’affermazione casuale, ma sia invece parte di un percorso politico intenzionale, è necessario precisare che queste parole sono state pronunciate durante un discorso tenutosi nella banlieue di Les Mureaux, a quaranta chilometri di Parigi: la periferia considerata fiore all’occhiello dell’amministrazione francese per le politiche integrazioniste. Macron ha detto: “l’Islam oggi vive una crisi in tutto il mondo” e che i fondamentalisti hanno sviluppato “progetti religiosi e politici” che hanno l’obiettivo di un “indurimento molto forte” di tutte le religioni del mondo. Chiaramente, visto il contesto, l’obiettivo di Macron era declinato sia sul piano internazionale, sia su quello nazionale. Ha poi aggiunto che “la scuola deve inculcare i valori della Repubblica e non quelli della religione, formare dei cittadini, non dei fedeli”. Ha annunciato misure per sciogliere associazioni, gruppi o organizzazioni pericolose. Il compito dello Stato, inoltre, sarebbe quello di aiutare l’Islam a “strutturarsi per essere un partner della Repubblica”. Le reazioni del mondo musulmano, in Francia e in altri Paesi, sono state fortissime.

La questione sull’identità francese non è nuova. Fu Sarkozy a lanciare il dibattito, salvo poi entrare in contraddizione per i rapporti sviluppati con il Qatar che, notoriamente, è uno dei massimi finanziatori dei Fratelli musulmani. E Valls, dopo gli attentati del 2015 e 2016, adottò una linea intransigente sulla questione. Dunque, la posizione di Macron è in continuità con quanto accaduto in precedenza, ossia va letta come risposta di un’ampia e trasversale porzione della politica parlamentare. Inutile dire che, chiaramente, i termini in cui Macron parla di Islam sono problematici. Prima afferma che i musulmani vivono in una dimensione parallela, in un’altra Francia, non per una situazione contingente, ma per loro scelta — separatista è colui o colei che non vuole stare con il resto della popolazione. In aggiunta a ciò, il premier francese dichiara la volontà dello Stato di mettere in campo dei processi culturali e di restringimento delle libertà per ridisegnare l’Islam, per renderlo più confacente al modello pensato dalla Republique. Chiaramente questa operazione è problematica perché porta, in sé, il segno di una superiorità culturale della Francia che deriva, tra le altre cose, dall’esperienza coloniale. E non ha impattato sui settori più radicali – quelli, per comprenderci, in cui si elaborano le posizioni jihadiste, che sicuramente non si aspettavano aperture da Parigi – ma sull’ampio ed eterogeneo mondo dei fedeli musulmani.

Ma vi è anche un’altra questione che si lega a questa: quella della torsione autoritaria di lungo corso – come l’hanno chiamata Duccio Scotini e Martino Sacchi su Jacobin Italia – che parte con l’imposizione dello stato di emergenza dopo gli attentati al Bataclan, continua con la repressione delle lotte contro la “loi travail” e persiste durante le mobilitazioni dei Gilets Jaunes e contro la riforma delle pensioni. Fino ad arrivare alla legge di “sécurité globale” che vieta di riprendere in volto gli agenti o loro elementi di identificazione, attribuendo la facoltà alla polizia di mettere in stato di fermo chi compie tale azione. Un dispositivo che giunge al termine di una lunga sequenza di violenze da parte della polizia sui cortei – penso, appunto, ai Gilet Jaunes – nelle colonie interne, le banlieues, da parte delle Brigade Anti Criminalité, dei tanti video in cui la polizia francese – ricordando quella americana – pesta soggetti razzializzati.

Il tweet di Macron “La laïcité n’a jamais tué personne” riassume, dunque, una questione complessa, in cui si incrociano più piani. Se la laicità di cui parla Macron è quella della Republique e volendo lasciare alla storia il compito di contraddire il premier, bisognerebbe ricordargli una data: il 17 ottobre 1961, quando oltre un centinaio di algerini che manifestavano pacificamente a Parigi per l’indipendenza dell’Algeria, furono brutalmente uccisi dalla polizia, ammazzati a bastonate o buttati nella Senna.

L’atteggiamento assunto nei confronti degli elettori musulmani aiuterà o penalizzerà Macron in campagna elettorale? È utile inseguire Le Pen andando verso destra?

È difficile rispondere a questa domanda. Probabilmente Macron mira a recuperare voti a destra, sì, presentandosi all’elettorato di Le Pen come un interlocutore plausibile.

Molti, tra cui Giuseppe Conte, l’Alto Commissario per la politica estera UE Josep Borrell e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, si sono schierati con Macron dicendo che le parole di Erdogan nei suoi confronti sono inaccettabili. Ma non dovremmo aspettarci dalla politica reazioni che restituiscano il quadro bene più ampio della situazione?

La politica parlamentare, il più delle volte, percorre un sentiero suo, aspettandosi che siano i cittadini e le cittadine ad abituarsi ai linguaggi, alla forma mentis proposta. Il problema è proprio questo: dovremmo, o forse no, aspettarci ancora qualcosa da questa politica? Il che non vuole evocare l’antipolitica, un populismo spicciolo del “sono tutti uguali”. Il punto è in quel plurale “loro sono”, esterno a chi parla. Lo dico in senso positivo e propositivo, come attenzione per quelle soggettività che partono dal basso, dalle piazze, per un percorso di lotte. Il nodo della rappresentanza mi sembra ancora centrale, anche se è ormai problematizzato da pochi. Come anche quello della delega, di come, viceversa, sia imprescindibile ripartire dai corpi, dai contesti, dai bisogni per ridisegnare una mappa di possibili liberazioni.

In Bangladesh, a Dacca, oltre 40 mila persone hanno protestato all’ambasciata francese, e sono state bruciate bandiere francesi anche in altri paesi. Luoghi che però in Italia non vengono quasi mai nominati. L’Università di Doha ha annunciato di aver rinviato indefinitamente la “Settimana della cultura francese”. Come leggere queste decisioni? E da chi sono guidate?

Credo sia necessario spostare lo sguardo dalla vignetta, dalla libertà di espressione in sé, dal fatto se Charlie Hebdo possa o non possa pubblicare certi contenuti. Lo stesso va fatto sulle immagini delle proteste, con le bandiere francesi bruciate, a Dacca e in Turchia. Ora, chiediamoci: davvero a Macron interessa tenere la parti di Charlie Hebdo, e difendere la libertà di espressione? E, d’altro canto, davvero ad Erdogan, tra i tanti leader del mondo musulmano, interessa chiedere rispetto per l’Islam? Ne dubito. Potremmo invece dire che l’Islam è diventato, per moltissime ragioni storiche e non solo, il terreno discorsivo della ridefinizione degli assetti globali. Già nel lontano 1981, Edward Said lo aveva messo nero su bianco in Covering Islam, proponendo una disamina che non andava ad argomentare ciò che poteva essere “giusto” o “sbagliato” nel campo delle libertà di espressione, ma analizzando il rapporto tra produzione di conoscenza e potere. Attraverso questa lente, credo sia necessario guardare i tragici eventi accaduti in Francia, dagli attentati a Charlie Hebdo all’omicidio di Samuel Paty, come anche i proclami dei leader dell’Islam e dei capi di stato dei Paesi a prevalenza musulmana. Questa pericolosa guerra combattuta a colpi di dichiarazioni, di provvedimenti culturali e legislativi come abbiamo visto, radicalizza le posizioni intorno ai poteri, facendo vittime da entrambe le parti. Il fine ultimo non è mai la salvaguardia della libertà, ma il suo opposto, ossia la conservazione e possibilmente l’espansione di un potere.

Erdogan mira a diventare il leader del mondo islamico?

Le trasformazioni politiche di Erdogan dimostrano che è ben capace di valutare le contingenze, il contesto politico, di scegliere vie molteplici – e talvolta in contraddizione tra di loro – per raggiungere i suoi fini. Non credo miri a diventare un leader riconosciuto del mondo islamico, perché, di fatto, già lo è, in Turchia e al di fuori del suo Paese. Ma certo tra le sue prerogative c’è l’idea di allargare la sfera di influenza di Ankara ben oltre i confini nazionali. Lo ha fatto con l’accordo sui flussi migratori con l’Europa; ha tentato di farlo nel quadro del Mediterraneo, per quanto riguarda gli assetti geopolitici della Libia.

In Turchia c’è chi – Erdogan compreso — invita a boicottare i prodotti Made in France. Cosa pensa dello strumento del boicottaggio?

L’invito di Erdogan a boicottare i prodotti francesi si colloca nel quadro di quanto dicevo prima. Quindi è una misura volta a danneggiare economicamente l’economia francese. Nulla di più di questo. Vi sono altri boicottaggi che hanno finalità diverse: penso al BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) che si propone di esercitare una pressione economica e politica su Israele, e sulle aziende e sugli Stati alleati, in modo tale ottenere la fine dell’occupazione, i diritti fondamentali per le e i palestinesi, per garantire il diritto al ritorno dei profughi.

Quali sono oggi gli stereotipi e le più diffuse credenze errate rispetto all’Islam?

Va premesso che non si tratta solamente di rappresentazioni. In un contributo del 2015, apparso nel volume “Il colore della nazione”, curato da Gaia Giuliani, parlo di “filigrana dell’immaginario”, intendendo con questa formula i processi di risignificazione delle immagini dei corpi neri prodotte in Europa per controllare la colonia dopo la caduta degli Imperi. Lo sguardo va posto sulle discontinuità: il razzismo coloniale non è il razzismo contemporaneo, ma tra i due vi è un legame stretto. Questo legame non può risolversi – come aveva intuito Edward Said in “Cultura e Imperialismo” – nella sola relazione nazione-colonia, ma che deve tenere conto degli altri processi di razzializzazione nella storia e guardare anche a periodi precedenti all’Illuminismo fin dalla colonizzazione delle Americhe e prima ancora. Silvia Sebastiani ha scritto bene su questo aspetto.

Ritengo riduttivo affermare che le società europee sono razziste perché hanno rimosso i colonialismi. Si rischia di semplificare un insieme complesso di fenomeni memoriali, di concentrarsi sulle similitudini – ieri i colonizzati, oggi gli immigrati: entrambi con i corpi neri marchiati dagli stereotipi sulla razza – e di non guardare, invece, alle pratiche di costruzione dell’alterità. È innegabile che le forme di razzializzazione, in termini di memoria, si sviluppino su un piano visuale — non si realizzano, però, per ignoranza o mancanza di conoscenza. La razza è funzionale alla costruzione di un sistema economico, all’organizzazione della società e quindi del lavoro – da W.E.B. Du Bois a Cedric J. Robinson, fino ad Angela Davis: questo passaggio è stato problematizzato da più voci, con numerose interpretazioni. Proprio per questo motivo, pensare di combattere il razzismo con la ricerca storica è velleitario altri messaggi, con una capacità comunicativa ben più potente dell’accademia, si diffondono tra spazio pubblico e privato. Penso alla televisione, ai media, a internet. E poi, bisognerebbe decentrare lo sguardo sulla storia e sul processo epistemologico con cui è prodotta.

Se vogliamo studiare i razzismi contemporanei è necessario adottare un approccio che indaghi le discontinuità in termini di razza partendo dai processi contemporanei e rivolgendoci al passato. Una postura tutt’altro che consona o tradizionale per gli studi storici. Questo perché la ricostruzione della storia coloniale, di ciò che è stato celato senza essere rimosso non è un progetto che, a mio avviso, potrà mai contrastare lo sviluppo del razzismo. In altre parole, si può conoscere benissimo il linguaggio della razza, e quindi essere razzisti nella società contemporanea, senza aver mai letto una pagina di storia coloniale. Questo non significa che la storia non serva a nulla; anzi è importante quando riesce a inventare nuovi approcci e metodi per analizzare la razza in combinazione con le relazioni materiali dei rapporti di soggettivazione. In questo senso, la decolonizzazione della cultura – attraverso la produzione di sapere storico – non si può ridurre alla semplice decostruzione delle rappresentazioni della razza, ma credo debba partire da un’idea precisa di società futura.

Fatte queste precisazioni, gli stereotipi sono innumerevoli. Il primo, forse il più evidente, è di considerare la persona musulmana come connivente o adddirittura legata direttamente al terrorismo islamico. Si fa molta confusione, poi, tra “arabo” e “musulmano,” utilizzando i due termini come sinonimi. L’immaginario pubblico è di un soggetto che trama contro la democrazia, l’Europa, la libertà; una persona al contempo sottomessa e pronta a eclatanti e violenti azioni contro i “bianchi cristiani.” La “filigrana dell’immaginario” restituisce un dato preciso: la persona musulmana non sarebbe capace di abitare la modernità, la democrazia, lo stato di diritto vista la sua cultura retrograda, barbara, arretrata.

Un altro stereotipo è quello che giudica le donne musulmane come prive di un proprio pensiero ed estranee all’attivismo.

Lo stereotipo riguarda la subordinazione della donna musulmana all’uomo, al marito, al compagno. Numerose sono le persone che hanno svolto, in ambiti disciplinari differenti, ricerche e scritto per sciogliere questa narrazione. Mi viene in mente la questione del velo – e penso subito ai testi di Ruba Salih; all’agency delle donne musulmane rispetto alla politica, ai differenti femminismi laici e islamici. u questo tema hanno lavorato, tra le tante, Renata Pepicelli, Sara Borrillo e Lucia Sorbera; Francesca Biancani, invece, ha affrontato il lavoro sessuale al Cairo in periodo coloniale. Cito questo testo riallacciandomi a quanto riferito prima, e nello specifico a come la costruzione della modernità.Le trasformazioni sociali possono essere lette come cifra iscritta sul corpo delle donne con una serie di pratiche che dipendono tanto dai processi di sessualizzazione quanto dallo sviluppo di ansie rispetto alla degenerazione razziale. Un altro coté, che annulla la figura della musulmana subalterna, riguarda il ruolo delle donne – dei movimenti femminili e femministi – durante le cosiddette “Primavere Arabe”. Su questo tema i testi consultabili sono numerosi: penso al collettaneo di Rita Stephan e Mounira Charrad, che si spinge temporalmente oltre la cesura temporale del 2010-2011. E va citato, per una lettura dei tentativi di trasformazione e di riconfigurazione dei regimi, tra continuità e discontinuità, il volume curato da Paola Rivetti e Rosita Di Peri che riguarda la Tunisia, l’Egitto e il Marocco. Senza dimenticare l’importante progetto collettaneo di Silvia Moresi e Chiara Comito, Arabpop, in cui si interpretano le insorgenze attraverso l’arte e la letteratura, in cui la produzione culturale diventa strumento politico e, al contempo, espressione delle soggettività femminili.

In “Islamofobia e razzismo,” un progetto collettivo che ho avuto il piacere di curare, numerose studiose hanno cercato di analizzare le forme dell’islamofobia sotto molteplici aspetti: Alessandra Marchi ha proposto riflessioni sulla rappresentazione stereotipata del sufismo come alternativa al fondamentalismo; Marina Calculli ha approcciato l’argomento nella cornice del discorso securitario post-2011 nel Mediterraneo; Clara Capelli ne ha analizzato gli aspetti economici, focalizzandosi sulla segmentazione del mercato del lavoro. Vorrei anche ricordare il contributo di Gina Annunziata e Charles Burdett che hanno interrogato, rispettivamente, l’archivio delle produzioni cinematografiche e della produzione narrativa. Debora Del Pistoia ha studiato gli effetti dell’islamofobia europea nei Paesi a maggioranza musulmana. Gli interventi di Sara Borrillo e Takoua Ben Mohamed riguardano proprio gli stereotipi sulle donne musulmane e i tentativi di liberazione: la prima, con un saggio, la seconda con delle tavole.

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