Potenziare il sistema sanitario prima della terza ondata
Abbiamo fatto il punto della situazione in Lombardia con il segretario regionale di Anaao-Assomed Stefano Magnone: “Servono più posti letto, ma soprattutto più assunzioni”
in copertina, l’ospedale Covid-19 in Fiera a Milano, via Facebook
Abbiamo fatto il punto della situazione in Lombardia con il segretario regionale di Anaao-Assomed Stefano Magnone: “Servono più posti letto, ma soprattutto più assunzioni”
Negli ultimi dieci giorni in Lombardia si è cominciata a respirare un’aria da zona gialla. I dati del contagio sono in costante calo, e la priorità del discorso pubblico si è rapidamente spostata su regali e cenoni di Natale. Il 25 novembre il governatore Fontana aveva detto che, nonostante i dati potessero garantire alla regione la zona gialla, si sarebbe accontentato di quella arancione — ed è stato accontentato dal governo. Da ieri, la Lombardia ha visto una piccola riduzione delle proprie restrizioni anti-contagio.
Tutto bene dunque? Non proprio: nella settimana dal 22 al 28 novembre nella regione si sono contati 1.153 contagi, e i contagi solo all’interno del comune di Milano sono ancora stabilmente sopra i 500 al giorno. Ma soprattutto il futuro che ci attende nei prossimi mesi è più incerto che mai: anche se la situazione epidemiologica è destinata a migliorare nel breve termine, manca del tutto un piano concreto per gestire la fase di riapertura. La linea del governo sembra essere quella di “tenere duro” fino alla fine di gennaio, quando dovrebbero essere disponibili le prime dosi del vaccino di Pfizer.
Ciononostante, non c’è alcuna certezza che nel frattempo — o anche dopo l’arrivo del vaccino stesso — non si andrà incontro ad un’altra ondata di contagi. Ondate che provocano danni economici e sociali, ma soprattutto morti: causati non solo direttamente dal Covid, ma anche dal ritardo nelle prestazioni mediche per altre patologie dovuto al sovraccarico dei servizi sanitari. Ne abbiamo parlato con Stefano Magnone, segretario di Anaao Assomed Lombardia, il più grande sindacato del personale sanitario italiano.
Nelle scorse settimane il vostro sindacato ha denunciato più volte le carenze del sistema sanitario nazionale e gli errori nella gestione della seconda ondata. Circa dieci giorni fa avete parlato di un quadro “drammatico” calcolando la saturazione dei posti letto occupati rispetto al 2018 — in Lombardia risultava al 129%. Ora com’è la situazione nella regione??Sicuramente era più grave una settimana fa: abbiamo vissuto momenti drammatici. Nei pronto soccorso di Milano, Monza e Varese arrivavano persone in continuazione, non c’erano letti e si è dovuto spostare malati in tutta la regione, con medici messi a lavorare in reparti per cui non erano formati. Siamo arrivati molto vicini al mese di marzo, anche se il ritmo di salita della curva è stato diverso.
È stato diverso ma il ritorno del virus sembra avere, di fatto, colto tutti di sorpresa. Non poteva essere fatto qualcosa di più per prepararsi meglio?Sì, ma forse bisognava pensarci dieci anni fa. Nel corso degli anni infatti abbiamo bloccato il turnover del personale sanitario — con i governi di centrodestra intorno al 2010 e anche prima; ridotto i letti con la spending review del governo Monti; poi abbiamo tagliato la programmazione dei medici specialisti. Mettiamo insieme queste tre cose e ci siamo trovati con pochi letti di rianimazione, nessun medico specialista da assumere in giro e con il personale anziano. In Lombardia oggi c’è un’età mediana dei medici di circa 55 anni. In un quadro del genere, non bastano sei mesi per recuperare.
Chiaro, però in questi sei mesi si poteva comunque fare qualcosa.Sul versante del personale si potevano gestire meglio le assunzioni degli specializzandi, che sono l’unica risorsa giovane che abbiamo. Anche se non sono completamente formati, soprattutto quelli del quarto o del quinto anno sono ampiamente in grado, magari seguiti da un tutor, di aiutare l’attività ospedaliera. Ma per attivare questa risorsa abbiamo fatto una fatica immane: la legge è stata scritta male, l’abbiamo applicata lentamente e le università continuano a frapporre ostacoli alle assunzioni.
Come mai?Le università viaggiano da sempre con centinaia di specializzandi alle proprie dipendenze: perché dovrebbero regalarli agli altri ospedali che li assumono? È una questione di vero potere baronale, niente di più niente di meno, ed è un unicum tutto italiano.
Non tutti gli specialisti vanno a lavorare nel pubblico, ma noi eravamo in grossa difficoltà per una carenza di specialisti da molti anni. Adesso abbiamo iniziato a porre rimedio a questa situazione perché abbiamo aumentato il numero di contratti di formazione, ma cominceremo a vedere i nuovi specialisti tra quattro-cinque anni, e non in sei mesi. Del resto non si può scendere nemmeno troppo sul versante della formazione assente: il neolaureato in ospedale fa veramente fatica, perché ci vuole uno specialista. Si può abbassare l’età dei medici fino a un certo punto, ma i rischi aumentano, dato che si tratta di persone non formate — non per colpa loro, ovviamente. Il commissario ha comprato i letti e i respiratori, ma la gente che cura i malati dov’è?
Un po’ quello che si è visto anche per l’ospedale in Fiera a Milano: la struttura era pronta ma mancava il personale.Sì, anche per l’ospedale in Fiera: abbiamo dovuto prendere il personale dagli ospedali. Per fare questo abbiamo dovuto spegnere l’attività programmata degli ospedali più periferici per metterli nella Fiera o negli hub, poi anche negli hub abbiamo dovuto ridurli, e così via.
I numeri sono quelli. Non siamo la Germania, non abbiamo una struttura simile, che ha un numero molto più alto di personale adeguato — anche se hanno fatto fatica anche loro. Altri paesi come Regno Unito e Francia hanno avuto problemi uguali ai nostri. Il nostro sistema sanitario è indebolito da anni di tagli ed errori, e abbiamo tuttora un problema con la medicina del territorio che per mille motivi non risponde ai suoi compiti. Anche lì — per disinvestimenti e età avanzata dei medici che fanno fatica a essere rimpiazzati. In Italia non mancano i medici, mancano quelli finalizzati: non hanno finito il percorso di medicina generale perché mancavano i posti. Come dicevo, non abbiamo specialisti — abbiamo un sacco di laureati a spasso.
Cosa fanno in genere questi laureati?Campano con mille lavori: sostituiscono medici di base, lavorano nelle guardie mediche, lavorano nelle cliniche… Fanno tanti lavori diversi, in attesa di finire il percorso formativo, che sia medicina di base o quella ospedaliera. Il tema è enorme anche per il futuro, ad esempio per quanto riguarda le professioni sanitarie che sono decine — e hanno dignità universitaria: mestieri in fase di trasformazione con competenze ben precise. Alcuni mestieri che i medici hanno sempre fatto oggi possono essere assegnati a professioni sanitarie che prima non esistevano: l’infermiere quarant’anni fa aveva la terza media, adesso ha un diploma di università. Non si può non tener conto di questo.
Quanto di questo cambiamento dipende dalla politica regionale e quanto da quella nazionale?Questi sono temi nazionali. Quello che può fare la regione è modificare il proprio modello sanitario, e la Lombardia sicuramente ha fatto scelte sbagliate negli ultimi vent’anni. Formigoni ha creato un sistema che già prima della pandemia aveva mostrato diversi punti deboli. Recentemente ha accusato Maroni di averlo stravolto, ma mi sembra troppo facile come via d’uscita. Lo ha detto su Repubblica in un’intervista della scorsa settimana, sostenendo che dalla sua riforma quella lombarda sia diventata “la migliore sanità del mondo” — ma non è vero, prima non è che ci fosse un deserto: la sanità lombarda per merito di chi lavora è sempre stata eccellente. Formigoni si è inventato la competizione tra pubblico e privato, che ha fatto fare un sacco di affari al privato. Poi se il suo obiettivo era che la gente potesse andare al San Raffaele o all’Humanitas gratis l’ha raggiunto… Però c’è anche tanta altra roba che si poteva evitare.
Com’è la situazione per quanto riguarda le cure palliative in Lombardia e la riduzione delle operazioni programmate? Da Napoli un mese fa è arrivata la notizia che alcuni posti riservati alle cure palliative erano stati ridotti per far spazio a pazienti Covid.Non mi risulta che i malati terminali in Lombardia siano stati abbandonati, anche se non ho informazioni così dettagliate. Invece per quanto riguarda gli interventi programmati… È chiaro che questo è un problema. Avevamo un piano che prevedeva un’attivazione di letti Covid a seconda dei livelli di fabbisogno. Per ogni livello c’era una progressiva inattivazione della parte programmata, soprattutto per lasciare posto nelle rianimazioni. In Lombardia siamo arrivati a effettuare tra il 30 e il 35% dell’attività programmata. In alcuni ospedali anche meno: in alcuni ospedali particolarmente colpiti della zona milanese, o del varesino o di Monza, l’attività programmata sarà anche del 20%.
Che danni possono causare ritardi del genere?Di certo per alcune patologie queste settimane non aiutano. Qualcuno può andar bene qualcuno male, lo vedremo nel tempo. Alcuni pazienti ad esempio non riescono ad accedere alle diagnosi, oppure riescono ad accedere alla diagnosi ma fanno l’intervento 60 giorni dopo e può essere tanto. Io faccio il chirurgo a Bergamo e in genere riusciamo ad operare la gente dopo 4-5 settimane: ora siamo a 60 giorni. Sono tempi che la regione si è data, sia chiaro, ma sono tempi dilatati e legati all’emergenza.
Come vedete le settimane future?È chiaro che per noi le riaperture sono come il fumo negli occhi. Non so come si possa pensare di riaprire senza sapere che poi ci tornerà il virus addosso. Io da medico posso dire che non riaprire sarebbe l’optimum finché non c’è il vaccino per evitare di incorrere in ondate come queste. Poi se c’è qualcuno più esperto di me — per fortuna non ho questa responsabilità — e si prenderà la briga di fare un disegno più accorto di quello dei mesi passati… Ben venga. Io di soluzioni non ne ho, quello che posso dire è che si deve continuare con il potenziamento del sistema sanitario.
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