La crisi di Trump arriva in Medio Oriente

Mentre Trump continua a negare il risultato elettorale, la sua politica estera si fa sempre più nervosa, tra prove di disimpegno e tentazioni di attacchi missilistici. Intanto, Israele e l’Iran si preparano agli Stati Uniti di Biden

La crisi di Trump arriva in Medio Oriente

Mentre Trump continua a negare il risultato elettorale, la sua politica estera si fa sempre più nervosa, tra prove di disimpegno e tentazioni di attacchi missilistici. Intanto, Israele e l’Iran si preparano agli Stati Uniti di Biden

Continuano gli spasmi dell’amministrazione Trump. Ieri il New York Times ha pubblicato un retroscena che sembra confermare che il presidente voglia ritirare le truppe statunitensi dagli impegni militari “antiterroristici” in Afghanistan, Iraq e Somalia, una delle promesse ripetute con più intensità durante la campagna elettorale del 2016. Una bozza del provvedimento, che circolava ieri al Pentagono, prevederebbe il dimezzamento delle truppe in Afghanistan — ora ci sono 4500 soldati — e la riduzione delle forze presenti in Iraq sotto le 3000 unità. In Somalia è previsto il ritiro di tutti i 700 militari, attualmente impegnati in operazioni antiterroristiche. Nel documento non si menzionano, invece, i soldati impegnati in altri fronti: dalla Siria alle missioni in Kenya e Gibuti, dove l’esercito statunitense è stanziato per lanciare operazioni drone in Somalia. Come dicevamo, Trump ha provato più volte a tagliare le truppe in Afghanistan e in Iraq, ma gli obiettivi del presidente sono sempre stati frenati dai propri consiglieri alla Difesa e dal Pentagono. Ora il Pentagono, però, è in mano a fedelissimi trumpiani.

La riduzione delle occupazioni militari statunitensi è indubbiamente una buona notizia, ma non va letta come hanno fatto molti commentatori in questi quattro anni, raccontando di un presunto Trump “pacifista.” Mentre si rincorrevano le voci del ritiro delle truppe, l’amministrazione continuava con la propria politica di “massima pressione” contro l’Iran, annunciando nuove pesanti sanzioni contro una fondazione di Ali Khamenei, accusata di “abusi di diritti umani”: secondo il Tesoro statunitense la Fondazione Mostazafan, infatti, utilizzerebbe beni “espropriati al popolo iraniano.” Contemporaneamente, da Israele, il segretario di Stato Mike Pompeo si è lanciato in un attacco sferzante contro la Repubblica islamica, definendola “ancora più isolata di prima,” e lodando l’impegno israeliano negli accordi di normalizzazione celebrati alla Casa bianca. L’aggressività di Pompeo dà rinnovata credibilità a voci che circolano da giorni e che sono state di nuovo sollevate da un altro retroscena di ieri del New York Times, secondo cui Trump avrebbe chiesto ai propri consiglieri come attaccare la cittadina di Natanz, dove il paese conserva ingenti riserve di uranio. Durante l’incontro Pompeo e il generale Milley avrebbero spiegato a Trump i rischi di far scattare un’escalation militare, fermando la possibilità di attacchi missilistici.

La visita di Pompeo in Israele — durante la quale il segretario di Stato visiterà anche territori occupati illegalmente — arriva in un momento imbarazzante: Netanyahu non ha seguito Trump nella contestazione del risultato delle elezioni statunitensi, e al contrario ha fatto le proprie congratulazioni a Biden, allineandosi al resto della politica internazionale. Due giorni fa l’ufficio stampa del Primo ministro alternato ha celebrato la prima telefonata tra il leader israeliano e il presidente eletto statunitense: Netanyahu è sopravvissuto politicamente fino al 2020 grazie a Trump, ma non può permettersi di prendere le distanze dagli Stati Uniti — soprattutto quando è chiaro che in Biden può trovare un alleato altrettanto valido, seppur più moderato. Biden era stato accolto positivamente anche dal presidente israeliano Rivlin, che lo aveva descritto come un “vecchio amico,” il cui rapporto è basato “su valori che vanno oltre la politica di partito.”

Speaking just now with President-elect @JoeBiden to congratulate him, I said that as a old friend of #Israel he knows our friendship is based on values beyond partisan politics. We have no doubt that under his leadership the United States is committed to our security and success. pic.twitter.com/BLh9Dxl8A3

— Reuven Rivlin (@PresidentRuvi) November 17, 2020

In particolare, Israele non può permettersi di essere estromesso dalle prossime evoluzioni del rapporto tra Stati Uniti e Iran. In un’intervista a Iran Daily di ieri, per la prima volta il ministro degli Esteri Zarif ha annunciato che il paese sarebbe disposto a ritornare ai propri impegni nel contesto degli accordi nucleari firmati con Obama, a patto che gli Stati Uniti sollevino le sanzioni imposte negli anni di Trump. Non sarà una strada in discesa — lo scorso settembre Biden aveva pubblicato un editoriale su CNN in cui parlava di “un modo più intelligente di essere duri con l’Iran” (…) in cui però si apriva ad un “percorso credibile per tornare a rapporti diplomatici.” La rimozione delle sanzioni, comunque, non è scontata come potrebbe sembrare — d’altronde non è detto che la politica estera di Biden sarà quella di Obama. Michèle Flournoy, una delle candidate più in vista come segretaria alla Difesa di Biden, ad esempio, preferisce la possibilità offrire strumenti umanitari all’Iran, ma non necessariamente di sollevare le sanzioni di Trump. Nell’intervista a Iran Daily Zarif riconosce che ridurre le tensioni con gli Stati Uniti non sarà un risultato scontato dell’elezione di Biden: “Dobbiamo accettare che la sconfitta di Trump non arriva come conseguenza della sua politica estera,” dice Zarif, che però riconosce che il rapporto “piú razionale” che ci sarà tra l’Europa e gli Stati Uniti guidati da Biden dovrebbe garantire meno episodi di bullismo internazionale.

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