L’Unione europea è in ostaggio di Ungheria e Polonia
L’Europa è incastrata tra due crisi che ignora da troppo tempo: la necessità di un maggior intervento economico a livello comunitario, e la stretta autoritaria di alcuni paesi membri
L’Europa è incastrata tra due crisi che ignora da troppo tempo: la necessità di un maggior intervento economico a livello comunitario, e la stretta autoritaria di alcuni paesi membri
“Temo che siamo di nuovo in crisi,” ha detto una fonte di Bruxelles a Daniel Boffey. Durante la riunione di ieri del Consiglio dell’Unione Europea, Ungheria e Polonia hanno posto il veto sulla misura delle “Risorse Proprie,” che permette all’Ue di emettere i tanto agognati titoli comunitari necessari per finanziare il Recovery Fund. Va da sé: senza risorse europee, salta l’intero meccanismo per sostenere l’Unione europea di fronte alla crisi economica scatenata dalla pandemia. Nessuno dei due stati, ovviamente, è davvero contrario al meccanismo degli eurobond: si tratta di un colpo dato strategicamente per fermare il testo accordato tra Consiglio e Parlamento, che lega l’accesso ai fondi europei al rispetto dello “stato di diritto.” Sia secondo il ministro della Giustizia polacco Ziobro che secondo il portavoce del Primo ministro Orbán il testo è irricevibile così com’è: entrambi lo hanno descritto usando l’espressione “schiavitù politica.”
Il problema del legame tra Recovery Fund e stato di diritto era una bomba ad orologeria che aspettava di esplodere: quando i leader europei avevano festeggiato durante l’interminabile summit in cui è stato approvato il Recovery Fund, la clausola sullo stato di diritto era stata molto ammorbidita — permettendo a Orbán e Morawiecki di cantar vittoria. “Non solo siamo riusciti a ottenere un gran mucchio di soldi (sic) ma abbiamo anche difeso l’onore delle nostre nazioni,” aveva dichiarato Orbán. La versione del testo approvata era stata immediatamente criticata dal Parlamento europeo, secondo cui la clausola dell’accordo era troppo ambigua.
La clausola è ragione di tensione, ovviamente, a causa della grave deriva autoritaria in corso in entrambi i paesi. In Ungheria la stampa è perseguitata e vengono chiuse le università; in Polonia, oltre all’ulteriore tentata repressione del diritto all’interruzione di gravidanza delle scorse settimane, la polizia arresta attivisti LGBTQ+ che manifestano pacificamente, la politica di estrema destra del PiS ha deformato il welfare e dal 2017 prosegue una progressiva stretta contro la magistratura, fino alla legge di questo aprile che impedisce ai magistrati di opporsi alle riforme giudiziarie. Nel primo report sullo stato di diritto sull’Ungheria, dello scorso settembre, la Commissione europea aveva espresso preoccupazioni per l’indipendenza della magistratura, la censura dei media, e gli attacchi del governo contro la società civile. Si tratta di una partita importante per entrambi gli stati, le cui economie tremebonde hanno profondamente bisogno dei fondi europei: nello scorso budget — quello 2014–2020 — sono stati stanziati, rispettivamente, 86 miliardi per la Polonia e 25 miliardi per l’Ungheria.
La contesa arriva in un momento cruciale per l’economia e la società europee, e il fondamento stesso dell’Unione: per la prima volta, infatti, con il Recovery Fund è incluso anche un programma di emissione di titoli comuni europei, i cosiddetti “Recovery Bond,” la cosa più simile a una vera e propria condivisione del debito tramite Eurobond a cui l’Ue si sia avvicinata negli ultimi anni. Un passaggio fondamentale per una vera e propria politica economica comune e parzialmente staccata dalle logiche dell’austerità — e che infatti era stata oggetto degli attacchi durissimi dei cosiddetti paesi dell’austerità, come quelli arrivati dal premier olandese Mark Rutte.
Quindi c’è il rischio concreto che il Recovery Fund si areni per il veto di Ungheria e Polonia?
Per ora, di fatto, è successo, ma in queste ore a Bruxelles si lavora febbrilmente per riuscire a superare la crisi: dopotutto, un compromesso era già stato trovato lo scorso luglio, e il testo uscito dal Parlamento non è rigido come poteva essere — potrebbe essere fatto digerire con la promessa di maggiori esborsi europei: entrambi i paesi hanno indicato infatti che non hanno obiezioni sulla “sostanza” del resto del pacchetto. Nel caso si continuasse il tiro alla fune, c’è chi ipotizza lo scenario in cui il Recovery Plan esca dal bilancio europeo, diventando un trattato separato — da cui a quel punto si potrebbero escludere i due stati autoritari. Ne ha parlato su Twitter la ricercatrice Silvia Merler, ma si tratta di uno scenario complesso, e che indebolirebbe il meccanismo del Recovery Fund stesso.
Ma ha veramente senso “impuntarsi” sulla questione dello stato di diritto, quando la contesa è così importante e delicata per il futuro del blocco? Il dato di fatto è che la pandemia di per sé costituisce un’occasione per i due stati autoritari europei di stringere il proprio pugno attorno alla società, ma, esattamente come la scorsa estate, potrebbe prevalere, tra gli stati europei, un approccio di realpolitik. Come durante lo scontro istituzionale del 2018, il margine per l’Unione europea per imporre sanzioni sui due paesi — ad esempio, togliere loro diritto di veto — è molto ristretto. Questo perché l’articolo 7, che si occupa della materia, sancisce la necessità di avere l’unanimità per colpire uno stato membro — e Polonia e Ungheria hanno già dichiarato che si proteggeranno a vicenda, rendendo di fatto impossibile una risposta “muscolare” alla forzatura dei due paesi.
L’impasse è stato pesantemente criticato dal Commissario al bilancio e all’amministrazione Hahn, che ha scritto su Twitter invitando tutte le parti ad essere più responsabili: “Non è una questione di ideologie, ma di aiutare i nostri cittadini in quella che è la più grave crisi dalla Seconda guerra mondiale.” Rasmus Andresen, un europarlamentare dei Verdi parte del gruppo parlamentare che segue il negoziato, ha dichiarato che “la resistenza di Orbán e del governo polacco è irresponsabile,” e che “sta cercando di prendere l’Europa in ostaggio con le proprie politiche fallimentari.” Secondo Andresen ora “serve la guida della cancelliera Merkel. I falsi compromessi ormai sono fuori luogo: sta diventando un problema che la cancelliera abbia fatto così poco per interferire nel negoziato.” Nel corso dell’estate erano state numerose le occasioni di scontro tra il Parlamento e Merkel: secondo il Parlamento, infatti, Merkel stava lavorando per ammorbidire ulteriormente la clausola sullo stato di diritto.
Quanto sta succedendo solleva dubbi più generali sul funzionamento dell’Unione Europea e sul suo bilanciamento di poteri interno
La prima cosa che salta all’occhio è lo strapotere che continuano ad avere i governi dei rispettivi paesi sulla Commissione e sul Parlamento, gli unici organi soggetti ad una scelta elettorale da parte di tutto il continente: anche due paesi di piccolo o medio peso come l’Ungheria o la Polonia, a causa del potere di veto, possono influire in modo decisivo sulla vita dell’intero continente — un po’ come si assiste nel caso di altre federazioni: ricorda un po’ il caso degli Stati Uniti, in cui singoli stati possono decidere per un pugno di voti le elezioni del futuro presidente.
Perché, in secondo luogo, anche il meccanismo stesso del potere di veto sembra essere stato concepito con poca assennatezza: chi ha scritto le norme dell’Unione aveva infatti previsto che un paese da solo non può farlo valere contro tutti gli altri, mentre due sì — una norma che potrebbe sembrare sensata, ma scritta apparentemente senza conoscenza della vita politica concreta, in cui è naturale e anche giusto che in un meccanismo collegiale si formino alleanze e schieramenti diversi. Tutti indicatori di come il funzionamento dell’Ue abbia bisogno di una profonda revisione in senso democratico per avvicinarsi ai propri cittadini, smettendo di essere una casa delle carte.