napoli-proteste

in copertina, foto di Mensa Occupata, via Facebook

Solidarietà per le aziende anche sopra i 5 milioni di fatturato, rigore per i lavoratori: le misure avanzate dal governo promettono di affrontare gli effetti delle chiusure — ma non per chi è più in difficoltà

Dopo le proteste dello scorso venerdì sera a Napoli, in cui alcune centinaia di persone avevano agitato la città contro il lockdown proposto dal governatore De Luca — che alla fine ha rinunciato a decretarlo — ieri sera centinaia di persone sono scese in piazza anche in altri capoluoghi del paese contro il “lockdown all’italiana” deciso dal governo per cercare di arginare l’aumento dei contagi. La situazione è stata particolarmente tesa soprattutto a Torino e Milano. Nel primo caso circa cinquecento persone si sono raccolte a piazza Castello e da lì hanno iniziato a muoversi per il centro, in particolare verso la sede della regione, rompendo alcune vetrine e saccheggiando la sede di un negozio di Gucci — se siete preoccupati per il destino di quei pantaloni gialli, sappiate che la refurtiva è stata poi recuperata in serata. A Milano invece i disordini hanno avuto luogo tra porta Venezia, la stazione Centrale e la sede della Regione Lombardia, dove si sono diretti i manifestanti, circa un centinaio: sono state tirate bombe carta, fumogeni e sassi.

Alla fine della serata, a Torino sono stati fermati cinque ultras della Juventus e cinque del Torino, mentre a Milano la polizia ha fermato due persone, un ragazzo e una ragazza. È sorto un dibattito molto acceso, simile a quello riguardante gli scontri di venerdì a Napoli, sull’appartenenza politica dei manifestanti. Molti osservatori indicano l’appartenenza dei contestatori al mondo degli ultras e a frange di estrema destra, e minimizzano la presenza in piazza — almeno a Milano e Torino — di commercianti, ristoratori, gestori di palestre e altre categorie particolarmente colpite dall’ultimo Dpcm. Milano Today parla di “esponenti del mondo ultras — molti i giubbotti con il logo di una delle curve di San Siro — e dei centri sociali di Milano, in uno strano mix tra militanti di estrema destra e anarchici.” Il giornalista di Radio Popolare Roberto Maggioni, che ha seguito la piazza di Milano, parla di “ragazzi molto giovani, adolescenti post adolescenti”: “Non c’erano striscioni, non ci sono stati slogan con riferimenti politici classici e se tra loro c’era qualcuno più politicizzato a trainare gli altri era molto, ben, camuffato. C’erano ragazzi col piumino, giubbotti neri, i jeans aderenti, tute adidas, di quelli che trovi a fare lo struscio il sabato pomeriggio al centro commerciale o a lavorare dietro le bancarelle ai mercati o nei bar. C’era anche una componente di origine nordafricana piuttosto vivace. Mini riot giovanili di chi non vive nel centro di Milano.” 

Capire se si ha a che fare con una piazza di sinistra o una neofascista è ovviamente di primaria importanza, ma non è la prima questione da chiarire e risolvere. Qualsiasi sia il colore di chi manifesta è importante notare che esistono motivi concreti per scendere in piazza oggi, e che alcuni possono addirittura sembrare discordanti tra loro. È possibile, ad esempio, avere bisogno di manifestare contro il governo per il suo disastroso fallimento nella gestione del tracciamento e dell’organizzazione ospedaliera; al tempo stesso è possibile manifestare per chiedere più chiusure — ad esempio, quelle dei posti di lavoro.

I mezzi di comunicazione in questi giorni si sono infatti concentrati soprattutto delle proteste di esercenti e proprietari di piccole imprese, che manifestano contro la chiusura forzata della propria attività. La maggior parte dei lavoratori italiani, però, è ancora costretta a recarsi in ufficio o in fabbrica, e anche questa vastissima categoria sociale, già abitualmente vessata e sfruttata da parte delle politiche governative e dei datori di lavoro, può covare una rabbia sociale pronta a esplodere — anche se non è chiaro contro chi: in molti, infatti, stanno cercando di “mettere il cappello” alle proteste di questi giorni. 

Anche a Napoli ieri i cittadini sono tornati a manifestare contro le chiusure, con un sit in pacifico in piazza del Plebiscito a cui hanno partecipato migliaia di persone. In questo caso è stata molto più evidente la componente delle categorie sociali e professionali direttamente toccate dal Dpcm: sono stati intonati slogan contro De Luca ed è stato organizzato un flash mob con shaker, forchette e coltelli. Roma, ad esempio, nel quartiere di Centocelle, un centinaio di negozianti hanno rovesciato per protesta i fusti di birra scaduta durante il primo lockdown. Diverse centinaia di persone sono scese in piazza anche a Lecce e Trieste

Uno striscione appeso sulle saracinesche di un negozio a Napoli, alla spalle della giornalista Carlotta Ricci. Uno Mattina, via Twitter

Per quanto la frustrazione dei proprietari dei negozi possa essere comprensibile, è evidente che in questo momento in Italia ci sono due interessi confliggenti: quello dei padroni che hanno interesse a tenere aperto a qualsiasi costo e quello di chi negli esercizi ci lavora. Qualunque sia l’esatta composizione politica di queste piazze, è evidente che la tensione politica nel paese resta alta. Per quanto la categoria più evidentemente colpita dall’ultimo Dpcm siano i commercianti, la crisi investirà tutti i lavoratori — ad esempio quelli impiegati in nero, magari proprio dai commercianti stessi, che non avranno accesso alle misure di indennizzo in arrivo. Nessuno, però, sta ad esempio parlando di un’eventuale stretta sullo smart working, che rimane una risorsa poco utilizzata in tutto il paese — a differenza della scuola, che insieme al lavoro doveva essere una priorità del governo ma che ha visto i propri studenti rispediti a casa dietro uno schermo senza troppi complimenti.

Ovviamente poi ci sono diverse sfumature: si può anche manifestare semplicemente perché non si ha intenzione di stare in casa per altri lunghi mesi. Ieri, inoltre, una parte della maggioranza ha chiesto di alleviare le misure di lockdown: in particolare Renzi — che già durante il primo lockdown si era distinto per il suo “aperturismo” — ha invitato il governo a modificare il provvedimento. Purtroppo le pretese di chi — in giacca e cravatta come il leader di Iv, o per strada — chiede che si riapra “tutto” rischiano di essere rapidamente superate dal progressivo degenerare della situazione pandemica nel paese. 

Quello che anima le piazze e in generale l’opinione pubblica non può essere ricondotto limitatamente a una volontà di “normalità” — la radice delle proteste è piú profonda: è l’ingiustizia di dover continuare a produrre — di tenere aperto — per poter vivere. Questa necessità, avvertita da tutti, produce un disagio molto forte ma diverso, in realtà contrapposto, tra i proprietari di aziende o negozi e i lavoratori. Ieri, il direttore generale dell’OMS Tedros è tornato a parlare di “affaticamento da pandemia,” ma ha chiesto alle nazioni — e ai cittadini — del mondo di “non arrendersi” al virus. Tedros ha sottolineato che nessuno auspica il ritorno dei lockdown di questa primavera, ma che per mantenere le scuole e le attività economiche aperte saranno necessari nuovi sacrifici e compromessi. Il direttore generale è tornato a rilevare l’importanza delle misure di solidarietà per i prossimi mesi. 

Il governo italiano tuttavia, come anticipato subito dopo il varo del Dpcm, si starebbe già muovendo per mobilitare circa 5 miliardi di euro in aiuti economici per le categorie colpite — ristorazione, spettacolo, sport — in quello che viene definito “decreto novembre” o “decreto ristoro.” Si tratta di una serie di misure in piena linea di continuità con quelle previste dal decreto “Cura Italia” dello scorso marzo: effettivamente incondizionate per le aziende, anche per quelle che hanno un fatturato oltre i 5 milioni di euro — e di sussidi solo temporanei per i lavoratori. Per loro, al contrario, si prevede un sussidio di mille euro, come sostitutivo del reddito del mese di novembre: la misura è definita “una tantum,” ed è accompagnata da numerosissimi paletti, in modo il più possibile la distribuzione. Il limite temporale è formalmente giustificato dalla natura “emergenziale” delle disposizioni date dal Dpcm — che resterà in vigore fino al 24 novembre — ma ignora completamente le difficoltà di chi lavora in settori, dalla ristorazione allo spettacolo, che sono state gravemente colpite dalla crisi economica anche a prescindere da quest’ultima chiusura. Per tutte le persone che, di mese in mese, dipendono dal proprio stipendio per pagare l’affitto e, letteralmente, da mangiare, una soluzione “una tantum,” mentre i casi continuano ad aumentare e la fine della crisi non sembra nemmeno all’orizzonte, non lascia nessuna certezza. Di fronte ai 450 mila nuovi poveri creati dalla crisi economica sembra che le priorità del governo siano sempre le stesse: solidarietà per i ricchi, e rigore per i poveri.

Sostieni l’informazione indipendente di the Submarine: abbonati a Hello, World! La prima settimana è gratis