Da Pepe a QAnon: com’è cambiato l’universo di Trump quattro anni dopo
L’ecosistema attorno a Trump non potrebbe essere più diverso da quattro anni fa: non c’è più vitalismo e presunta ironia, ma solo razzismo, bigottismo e violenza. Ma cosa è successo?
in copertina, un’illustrazione promozionale da Feels Good Man
L’ecosistema attorno a Trump non potrebbe essere più diverso da quattro anni fa: non c’è più vitalismo e presunta ironia, ma solo razzismo, bigottismo e violenza. Ma cosa è successo?
Un sondaggio di due giorni fa di Yahoo News / YouGov — su un campione di 1.583 persone — presentava un dato allarmante: metà degli elettori di Trump crederebbe che i vertici democratici sarebbero parte di una cabala di pedofili che ha infiltrato tutti i livelli delle istituzioni statunitensi. Tra gli intervistati, solo il 17% è disposto a rifiutare completamente quello che è uno dei tasselli fondamentali delle teorie di QAnon. In queste settimane la conversazione attorno alla teoria del complotto è stata uno degli argomenti principali della campagna elettorale, dai ripetuti tentativi di far condannare la teoria da Trump — tutti falliti — alle operazioni dei social network per cercare di limitare la circolazione di teorie pericolose.
È proprio confrontando il comportamento delle aziende, che cercano di moderare i propri social network, che appare evidente la differenza tra l’“ecosistema” che circonda la campagna elettorale per la rielezione di Trump rispetto a quella di quattro anni fa. Chi si ricorda dell’alt–right? Sono passati quattro anni, e la retorica attorno ai nuovi giovani che senza sosta sfornavano meme su Donald Trump, dettando quotidianamente l’agenda di Twitter, non potrebbe essere più lontana dalla realtà del 2020. Nel 2016 l’ascesa della nuova estrema destra, una forza largamente giovanile che era stata presentata sulla stampa generalista come inarrestabile, era stata inquadrata come la ragione della “vittoria” di Donald Trump. Secondo questa narrazione, da una parte c’era un Partito democratico sempre più imbolsito, con una candidata che non piaceva nemmeno agli elettori del partito stesso, dall’altra un Partito repubblicano che aveva perso il controllo del proprio stesso candidato, vicino sì all’estrema destra, ma con una formula nuova, un carrozzone coloratissimo che tra Pepe the Frog, “but her emails!!” e “own the libs” sembrava irresistibile.
Quello spaccato di storia contemporanea è incapsulato benissimo in Feels Good Man, un documentario imperdibile di Arthur Jones (purtroppo non ancora disponibile fuori dagli Stati Uniti) che racconta di come l’estrema destra abbia cooptato la ranocchia Pepe the frog del fumettista Matt Furie — e di come l’artista da allora stia cercando di riprendere le redini del significato di un suo personaggio. Il film, oltre dipingere un ritratto celebrativo di Furie e del suo entourage, spiega in modo efficace come nessuno possa controllare il destino di un contenuto nella cultura del remix costante, nemmeno il suo creatore.
Oggi il tono è drasticamente diverso. I contenuti che costituiscono l’ossatura del discorso online dell’estrema destra statunitense sono quasi impossibili da ricondurre a quelli di quattro anni fa — se non fosse per l’ovvio sostrato culturale razzista. Si tratta di un partito, e di un candidato, sostanzialmente irriconoscibili. Ma come si è arrivati a QAnon da Pepe the Frog?
Per capire cosa sia successo bisogna parlare di irony poisoning, e di come la mediazione tra noi e la realtà attuata da internet contribuisca a un fenomeno di vera e propria decostruzione del reale: un problema che non si risolve solo parlando di “fake news,” e che riguarda in senso più ampio come percepiamo la realtà intorno a noi.
Irony poisoning è un’espressione statunitense che ha avuto poco successo sull’Internet italiano, ma che descrive un fenomeno che chiunque abbia osservato i meccanismi di radicalizzazione utilizzati dalla “bestia” di Matteo Salvini e Luca Morisi conosce bene. Si potrebbe riassumerlo con l’esempio “a furia di scherzare sul nazismo si diventa nazisti,” ma in realtà si tratta di un meccanismo molto più sottile: un meccanismo che opera a livello psicologico e gioca sul fatto che, attraverso l’ironia, si possa diventare semplicemente insensibili. Un esempio con cui potreste essere più familiari, dato che se leggete the Submarine difficilmente siete anche neofascisti, sono i meme sull’11 settembre. Se siete persone Estremamente Online di sicuro ne avete visti infiniti, e, anche se si riferiscono ad un episodio drammatico della storia contemporanea — che magari avete seguito in diretta da bambin* — vi lasciano sostanzialmente indifferenti, oppure, magari, vi fanno molto ridere. È quello che è successo con Pepe the Frog: da personaggio di nicchia della scena stoner dei primi anni ’10, Pepe è diventato protagonista di un numero sempre più alto di meme nazistoidi condivisi ironicamente e, spesso, in modo innocente — ovvero: da persone sì di destra, ma che non stavano cercando di indottrinare nessuno.
Poi, ovviamente, Pepe è finito su veri e propri contenuti nazisti, ed è diventato, a tutti gli effetti, un simbolo d’odio.
Le analisi dell’epoca — in parte viziate dallo stesso efficacia pop della comunicazione dei neonazisti nativi digitali, in parte perché era la prima volta che si assisteva a livello mondiale a un fenomeno di questo tipo — mancavano però di rilevare due aspetti fondamentali. In primo luogo come questi meme stessero cambiando la percezione del mondo reale. In secondo luogo — e soprattutto — non si era capito che il loro pubblico non era composto solo sedicenni edgy, ma fosse in realtà molto più ampio: una platea intergenerazionale che si è abituata a sorridere e scrollare le spalle quando si parla di ammazzare delle persone.
Nel 2016 si parlava della deriva a destra del Partito repubblicano come un fenomeno largamente giovanilistico, che aveva un pubblico trasversale — dai deplorables alle casalinghe razziste dei suburbs, certo, ma che si muoveva come una forza politica nuova e pericolosamente vitale. Nel 2020 il Partito repubblicano di Trump è questo:
L’intervento di Deirdre Mary Byrne alla RNC di quest’anno non è importante tanto per il contenuto politico — una presa di posizione pro–life a dir poco estremista, ma non particolarmente nuova — ma per il suo valore letteralmente iconico: una suora di guerra, che parla circondata da bandiere, su un palco lussuoso ma austero. Si tratta di un momento che, come pochi altri, segna la trasformazione della comunicazione, della produzione iconografica del comitato elettorale di Trump.
Così come scrivevamo prima, è facile semplificare “a furia di scherzare sul nazismo si diventa nazisti” — “a furia di scherzare tutti sul nazismo, gli Stati Uniti sono diventati nazisti.” Affermare un collegamento del genere tra i due singoli fenomeni vuol dire cancellare il lungo rapporto storico tra l’estrema destra e il pensiero complottista — un rapporto che ha una lunga storia ben documentata e che rimane, con il passare del tempo, solido e unitario. Menzioniamo di passaggio Proofs of a Conspiracy against all the Religions and Governments of Europe, di John Robison, e Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme, di Augustin Barruel, entrambi del 1797, che — scritti e pubblicati indipendentemente — suggeriscono entrambi l’influenza corruttrice degli Illuminati bavaresi all’interno della Rivoluzione francese. Le idee di Robison e Barruel hanno impostato il discorso complottista di estrema destra per più di due secoli ormai, da entrambe le parti dell’Atlantico.
L’idea fondamentale, infatti, è la stessa: una minoranza è in segreto organizzata in un gruppo che ha in qualche modo il potere di manipolare l’intera società, unicamente con lo scopo di distruggere i valori della coorte dominante. Dagli Illuminati bavaresi ai Protocolli dei Savi di Sion il passo è breve, ma da lì alla Cabal contro cui starebbe combattendo Trump il passo non è particolarmente più lungo. Il passaggio dal carrozzone colorato dell’alt–right al complottismo austero e nevrotico di QAnon è quindi molto semplice da spiegare — introducendo nozioni sempre più radicali e reazionarie all’interno di un contenuto che, per chi era vicino alla destra statunitense, restava comunque in larga parte di intrattenimento, si è preparato il terreno per un discorso d’odio più arido, senza bisogno di maquillage.
Misurare la penetrazione del pensiero complottista nel dibattito comune è probabilmente impossibile, ma tutti i ricercatori e gli analisti che ci hanno provato sono arrivati a conclusioni simili: anche prima del sondaggio che citavo in apertura dell’articolo, le teorie del complotto, in particolare negli Stati Uniti, sono diffusissime, e potrebbero rappresentare addirittura un credo maggioritario. Uno studio di Eric Oliver e Thomas Wood, basato su quattro indagini nazionali effettuate tra il 2006 e il 2011 — quando il clima politico era decisamente diverso — aveva misurato che metà degli intervistati credeva in qualche forma di teoria del complotto. Lo scorso luglio un sondaggio del Pew Research Center misurava che il 71% dei cittadini statunitensi fossero a conoscenza della teoria del complotto secondo cui il Covid–19 fosse stato sviluppato in laboratorio, e il 20% ci credeva. Non è insomma, di per sé, sorprendente che le teorie di QAnon siano popolari e abbiano seguaci.
Quello che serve capire, è che il problema non è costituito da QAnon per sé, come molte delle operazioni di moderazione sui social sembrano voler far trasparire. In un momento di crisi senza precedenti è necessario lavorare in modo trasparente, quasi didattico, per spiegare la realtà al pubblico. La politica, i media, ma anche intrattenimento e tecnologie, devono lavorare insieme, in questo senso. Soffocare le pagine che contengono menzioni ai capisaldi della teoria di QAnon vuol dire solo portare le persone verso altre teorie del complotto. Esattamente come per la diffusione della retorica dell’odio, il lavoro da fare è di natura fondamentalmente psicologica, prima che di dialettica o di politica.
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