E se invece di fare il coprifuoco rendessimo obbligatorio lo smart working?
Nell’epicentro della seconda ondata, a Milano e in Lombardia, migliaia di persone che potrebbero tranquillamente lavorare da casa sono costrette a spostarsi tutti i giorni per andare in ufficio
in copertina, una foto condivisa da Selvaggia Lucarelli martedì 13 ottobre su Twitter
Nell’epicentro della seconda ondata, a Milano e in Lombardia, migliaia di persone che potrebbero tranquillamente lavorare da casa sono costrette a spostarsi tutti i giorni per andare in ufficio
Mentre la curva dei contagi cresce pericolosamente, insieme al numero di persone ricoverate in ospedale e in terapia intensiva, la giunta regionale lombarda non sembra aver fatto tesoro dell’esperienza di marzo e aprile. L’ultima trovata, il coprifuoco dalle 23 alle 5 del mattino, è stata screditata dagli stessi esperti del Comitato tecnico-scientifico regionale prima ancora che sia entrata in vigore. Come ha ammesso candidamente il presidente Fontana, si tratta di una misura “simbolica,” che “non dovrebbe avere delle conseguenze di carattere economico particolarmente gravi” — e quindi non si capisce come possa influire sull’andamento del contagio. Secondo il virologo Fabrizio Pregliasco, a Milano “la situazione è esplosiva.” Per questo il Cts aveva chiesto perlomeno un coprifuoco vero, a partire dalle 21 e con la chiusura dei locali pubblici già dalle 18.
Ma la linea di Palazzo Lombardia è la stessa sancita anche da Palazzo Chigi con l’ultimo Dpcm del 18 ottobre: evitare un nuovo lockdown “a tutti i costi” per non compromettere la fragile ripresa economica, e nel frattempo approvare blande restrizioni per dare almeno l’impressione di fare qualcosa. Così si ripete il copione di marzo: la volontà di non scontentare questo o quel settore produttivo spinge a cercare capri espiatori nelle occasioni sociali e ricreative — la terribile movida — ricalcando la ridicola guerra contro i runner di qualche mese fa. Da una settimana a questa parte sembra quindi che la riduzione dei contagi dipenda unicamente dall’orario di chiusura dei ristoranti, dal numero esatto di persone che possono sedersi allo stesso tavolo o dalla possibilità di comprare alcolici al supermercato dopo le 18.
L’idea di tornare a ridurre la capienza dei mezzi pubblici è stata frettolosamente liquidata: secondo la ministra De Micheli il rischio di contagio a bordo dei mezzi “è bassissimo,” nonostante il coordinatore del Cts Agostino Miozzo non sia proprio dello stesso parere. Allo stesso modo, è completamente sparito dal dibattito il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, nonostante i numerosi focolai registrati in aziende e uffici. E lo smart working? Due giorni fa la ministra Fabiana Dadone ha firmato un nuovo decreto che prevede l’utilizzo del lavoro a distanza “almeno al 50%,” nella pubblica amministrazione. Anche qui, oltre che di un provvedimento tardivo (cosa impediva di proseguire con il lavoro a distanza dalla scorsa primavera?) si tratta di un compromesso al ribasso: nei giorni precedenti si era parlato infatti di includere già nel Dpcm un obbligo più stringente, al 75%, e non solo per la pubblica amministrazione, ma anche per le aziende private.
Perché si è deciso di non farlo? Eppure obbligare le aziende a tenere a casa i lavoratori che potrebbero comodamente svolgere le proprie mansioni anche da remoto contribuirebbe a decongestionare il trasporto pubblico e ridurrebbe i rischi di contagio in uffici e open space. Nei mesi del lockdown il numero di lavoratori italiani in smart working è cresciuto notevolmente, pur restando in percentuali inferiori alla media europea, grazie alla norma che da fine febbraio permette di applicarlo in deroga, cioè anche senza accordi individuali con il lavoratore, per tutta la durata dello stato d’emergenza. Con il Dpcm del 22 marzo, quello con cui sono state chiuse tutte le attività produttive “non essenziali,” lasciando soltanto la possibilità di proseguirle a distanza, il lavoro agile è diventato di fatto obbligatorio, fino al 4 maggio. Con la fine del lockdown, la scelta è tornata nelle mani delle aziende, senza nessun obbligo o vincolo a parte l’applicazione dei protocolli anti-contagio nei luoghi di lavoro. Così, la percentuale dei lavoratori in smart working, secondo l’Istat, è scesa dall’8,8% di marzo-aprile al 5,3% tra maggio e giugno. A luglio, circa il 40% dei lavoratori rimasti a casa durante il lockdown era tornato in ufficio.
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Nelle stesse settimane, alcuni personaggi in vista della politica italiana, primo fra tutti il sindaco di Milano Beppe Sala, hanno iniziato una guerra a bassa intensità contro lo smart working, accusato di svuotare i centri delle città, danneggiando un ecosistema basato sullo spostamento quotidiano di grandi masse di persone fuori e dentro i confini urbani. Lo stesso Sala si è reso protagonista di un braccio di ferro con i dipendenti del proprio comune, obbligati a tornare in ufficio a inizio ottobre con un massimo di 6 giorni di telelavoro a disposizione al mese. Oggi Milano è uno degli epicentri della seconda ondata pandemica — ieri 1054 casi registrati nella città metropolitana — e Sala ha cambiato idea, spiegando che “ora è diverso” (grazie). Di estendere almeno una quota obbligatoria di smart working anche alle aziende private però non parla nessuno, e così ogni giorno migliaia di lavoratori continuano a spostarsi nonostante un quadro epidemiologico paragonabile a quello di inizio marzo.
Come Roberta*, dipendente di una multinazionale con sede in più di 20 paesi europei: “Da inizio marzo fino a settembre siamo stati in smart working al 100%, e non ci sono state differenze sostanziali rispetto alla presenza in sede. Per motivi non chiari, però, l’azienda ha deciso che da ottobre dobbiamo fare 3 giorni a distanza e 2 in ufficio, e malgrado l’aumento dei casi non è rientrata questa regola.” È una storia comune a gran parte dei lavoratori del terziario a Milano e in Lombardia: “Siamo rientrati appena finito il lockdown, tra maggio e giugno. Non ci hanno dato una vera motivazione, ci hanno detto che era ora di rientrare perché ‘tutti’ rientravano, ma non abbiamo mai avuto orari scaglionati né la possibilità di fare smart working a rotazione,” racconta Federica*, che lavora nel digitale (e ci tiene a sottolineare il paradosso). Giorgia*, invece, lavora nel settore IT di una grande banca italiana. “Nonostante il lavoro al PC — racconta — siamo stati gli ultimi ad essere lasciati in smart working: alla seconda settimana di marzo ero ancora in sede. Adesso i sindacati spingono per un ritorno allo smart working al 100%, ma l’azienda insiste per tenerci almeno un giorno in sede a settimana, e racconta che i dipendenti stanno tornando volontariamente in sede.”
L’ostilità verso il lavoro agile — anche quando c’è un’emergenza sanitaria e sono gli stessi dipendenti a chiederlo — deriva spesso da una mentalità aziendale antiquata, abituata al controllo e alla diffidenza nei confronti dei lavoratori. Matteo* progetta impianti chimici per un’azienda di ingegneria: “Abbiamo dimostrato di non avere problemi con il lavoro da remoto, ma il capo del personale ammette apertamente che non si fida di quello che fanno i dipendenti a casa. Spesso chiama personalmente qualcuno appena prima o appena dopo la pausa pranzo, o appena prima delle 17.30, con delle scuse che lasciano capire chiaramente la sua intenzione di controllarci. La nostra RSU viene snobbata e non riusciamo a contrattare uno smart working vero e proprio: se non ci fosse quello in deroga non si sognerebbero di lasciarcelo fare. Ci sono molte persone che prendono i mezzi o che hanno figli a casa e che si lamentano e fanno richieste, ma la direzione è sorda: un collega qualche settimana fa ha chiesto di poter avere due giorni a casa in più per una settimana (con la promessa di non farne la settimana successiva) perché aveva problemi con gli orari scolastici del figlio e gli è stato risposto di prendere ferie. Ora con l’aggravarsi della pandemia ci sono concessi due giorni a settimana a casa, scelti per ognuno dalla direzione e molto difficilmente spostabili.”
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Tra le testimonianze che abbiamo raccolto, più che la paura di ammalarsi, c’è la paura di contagiare gli altri: “Sto vivendo male questa situazione,” aggiunge Federica, che per raggiungere il posto di lavoro, da pendolare, deve prendere sia il treno che la metropolitana. “Con questi movimenti stiamo contribuendo forse in modo asintomatico alla diffusione di questo virus, a casa ero molto più produttiva, e ora cerco di evitare gli incontri a livello sociale perché ho l’ansia di far ammalare gli altri, tra cui mia madre che ha più di 60 anni.” “Io sono fortunata perché vado in macchina, ma c’è chi è costretto a prendere i mezzi e in ufficio incontrano gente. C’è chi ha i figli che vanno a scuola,” racconta Roberta. E anche in ufficio non manca la preoccupazione di contrarre il virus, nonostante le misure di sicurezza: “In ufficio siamo disposti a scacchiera, da circa due settimane è obbligatoria la mascherina al proprio posto, ma quasi nessuno la mette e nessuno li riprende,” dice Giorgia. “Tra l’altro l’obbligo di mascherina al posto, in ogni caso, decade in pausa pranzo, perché non esiste altro posto dove mangiare, e quindi il regolamento prevede questa eccezione…”
“Io per andare alterno auto e mezzi, perché andare in auto, pur essendo più sicuro, mi costa 16 euro al giorno tra benzina, autostrada e parcheggio,” spiega Matteo. “Sono molto deluso e arrabbiato per questa mancanza di lungimiranza. non ho particolarmente paura ma soffro il fatto di essere costretto a correre un rischio inutile, anche se piccolo.”
A fronte di molte aziende che volontariamente hanno scelto di tenere in smart working i propri dipendenti, o che lasciano almeno la possibilità di organizzarsi flessibilmente, altre continuano a pretendere almeno una parte dei giorni della settimana in presenza — quel tanto che basta a non affollare troppo gli uffici. E, come a marzo, gli interessi economici delle aziende private sono gli ultimi ad essere intaccati dai provvedimenti del governo.
In questo modo, però, la curva dei contagi inevitabilmente continua ad aggravarsi: non si può pretendere che i coprifuochi serali possano avere qualche effetto sulla diffusione del virus, se durante il giorno migliaia di lavoratori sono costretti a spostarsi e incontrarsi inutilmente, perché come hanno lavorato da remoto tra marzo e maggio potrebbero benissimo farlo anche adesso, e potevano continuare a farlo durante l’estate. Secondo le indiscrezioni dei giornali, alla fine di questa settimana potrebbe arrivare già un altro Dpcm più restrittivo di quello di domenica scorsa: con la chiusura di palestre e piscine, nuovi limiti agli orari dei centri commerciali nel fine settimana, e l’ipotesi di un coprifuoco notturno in tutta Italia dalle 23 alle 6. Sul lavoro? Nemmeno una parola.
*Tutti i nomi sono di fantasia, per proteggere la privacy dei lavoratori e delle lavoratrici
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