Il Rojava continua a resistere, un anno dopo
Ad un anno dall’invasione militare turca in Rojava si continua a morire, schiacciati dalle minacce dei dittatori Erdogan ed Assad, dall’isolamento politico, e dal dilagare del Covid
in copertina, foto via Flickr
Ad un anno dall’invasione militare turca in Rojava si continua a morire, schiacciati dalle minacce dei dittatori Erdogan ed Assad, dall’isolamento politico, e dal dilagare del Covid
Dalla Turchia alla Siria, passando per Iraq ed Iran, le minoranze curde e le loro associazioni politiche sono spesso catalogate come terroristi alla pari di Al Qaeda o dello Stato Islamico. Eppure tra questi e la società democratica e paritaria creata dai curdi nel nord-est della Siria passa una differenza politica molto rilevante.
Le milizie popolari dello Ypg, infatti, hanno sopportato l’attacco dell’Is e hanno dato un contributo fondamentale alla liberazione di una vasta parte della Siria dalle forze jihadiste. Subito dopo, però, sono state lasciate sole con un incredibile voltafaccia dai propri alleati nell’ottobre del 2019 — quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciò l’intenzione di ritirare le proprie truppe dal nord-est della Siria per spostarle più a est, a presidio di giacimenti petroliferi e di gas naturale. Una dichiarazione che lasciò sbigottiti ed indignati gli alleati in Rojava, ma soprattutto aprì un’autostrada alla Turchia di Erdogan, libero di attaccare gli odiati nemici curdi.
Le truppe turche hanno dunque invaso il Rojava il 9 ottobre 2019, esattamente un anno fa, in quello che tecnicamente sarebbe da definirsi un illegale sconfinamento di una potenza NATO in un territorio neutrale — con tanto di bombardamenti su campi profughi, siti archeologici, scuole ed ospedali — ma che invece viene camuffato dalla propaganda turca con il più rassicurante termine “Operazione Sorgente di Pace”, tesa a creare una zona cuscinetto di 30 km tra il confine turco ed il Kurdistan siriano.
Così come accadde nel precedente attacco del 2018, quando la Turchia invase e conquistò il cantone curdo di Afrin, anche questa volta il pretesto usato da Erdogan per giustificare l’azione militare è la comunanza ideologica che lega il partito curdo siriano (Pyd) con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan turco (Pkk), considerato un’associazione terrorista da Ankara, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.
Quasi immediata fu la condanna in quei giorni da parte della comunità internazionale, Italia in primis, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che preannunciava pesanti provvedimenti contro la Turchia, tra cui un decreto ministeriale circa “la sospensione degli export di armamenti verso Ankara per tutto quello che riguarda il futuro dei prossimi contratti e dei prossimi impegni.”
L’argomento della vendita di armi italiane non è certo nuovo nel nostro paese che da anni è tra i principali venditori di morte in Medio Oriente. Solo nel 2018 l’Italia ha inviato ad Ankara 362 milioni di euro di autorizzazioni di materiali d’armamento, comprendenti bombe, munizioni, siluri, razzi, aeromobili, software, tecnologie, corazzature, apparecchiature per la direzione del tiro. Questi armamenti vengono poi riutilizzati da Erdogan per bombardare il popolo curdo e finanziare i propri progetti imperialisti.
A distanza di mesi da quelle dichiarazioni, come riportato da Altreconomia, non vi è però alcuna traccia del decreto ad hoc promesso dal ministro pentastellato. Anche la Farnesina ha rifiutato di fornire ogni informazione sull’argomento motivando il diniego a motivi di “sicurezza e difesa nazionale” e “correttezza” delle relazioni internazionali.
In generale tutta l’Unione Europea, nonostante conosca i legami che la Turchia intrattiene con Is, Al Nusra — un’affiliazione siriana di Al Qaeda — e numerose altra milizie jihadiste, è nei fatti costretta a rimanere in silenzio poiché sotto ricatto di Erdogan, al quale Bruxelles ha versato 6 miliardi di euro per bloccare i migliaia di rifugiati che inevitabilmente la guerra in Siria produce. Non va scordato inoltre che la Turchia fa parte dell’alleanza militare Nord Atlantica, al pari di Stati Uniti, Italia, Francia, Germania e altri paese europei. Inoltre il partito di Erdogan (AKP) è stato a lungo osservatore esterno, equindi alleato, del Partito Popolare Europeo, la coalizione di partiti di centrodestra tra i quali Forza Italia e la CDU di Angela Merkel).
Gli sviluppi da ottobre a dicembre 2019
Isolato politicamente e con una forza militare nettamente inferiore alla Turchia, il Rojava è stato costretto a scendere a patti con l’altro storico nemico: l’esercito nazionale siriano di Bashar Al Assad che, pur non riconoscendo l’autodeterminazione della Kurdistan siriano, non poteva tollerare l’invasione di uno stato straniero nei propri territori. Il dittatore siriano ha così inviato nelle città di Manbij e Kobane le proprie milizie a sostegno delle truppe curde.
I combattimenti sono proseguiti fino al 23 ottobre quando Putin, altro attore determinante nello scacchiere mediorientale, ha raggiunto a Sochi un’intesa con Erdogan per un cessate il fuoco permanente a patto che i combattenti curdi dello Ypg abbandonassero i territori al confine turco per un raggio di 30 km, eccezion fatta per la città di Qamishli lasciandoli alla gestione delle truppe russe, siriane e turche.
Il bilancio finale parla di oltre 300.000 civili costretti a lasciare le proprie case — senza distinzioni tra curdi, arabi o cristiani — 352 morti e più di 1500 feriti, la maggior parte donne e bambini. Per Erdogan si tratta dunque di un altro successo politico che gli garantisce una “zona cuscinetto” su cui ha dichiarato di voler collocare i profughi siriani presenti in Turchia, per quello che si preannuncia un vero e proprio cambiamento demografico imposto dall’alto, una sorta di pulizia etnica.
Grande assente in queste trattative è stata ancora una volta l’Unione Europea, a riprova dell’irrilevanza e dell’impotenza operativa di Bruxelles di fronte alle crisi internazionali.
Un nuovo nemico: il Covid 19 dilaga in Rojava
La guerra e l’isolamento politico hanno inevitabilmente reso il nord-est della Siria vulnerabile al Coronavirus. A oggi i numeri conosciuti non restituiscono l’effettiva realtà della situazione poiché in Rojava non ci sono abbastanza strumenti che permettano di poter tenere sotto monitoraggio la popolazione.
Secondo quanto dichiarato da operatori di Medici Senza Frontiere i pochi test effettuati a oggi nella regione hanno mostrato un tasso di positività al virus del 50%. Ciò suggerisce che le velocità di trasmissione siano elevate e che siano necessari molti più test. Come riportato da Al Monitor, le recenti incursioni turche hanno causato ingenti danni alle infrastutture sanitarie della regione ed hanno aumentato il numero degli sfollati. Erdogan ha inoltre tagliato l’approvvigionamento idrico, privando numerose famiglie dell’acqua necessaria per la corretta igiene che aiuta a prevenire il contagio. Nei pochi ospedali rimasti mancano i farmaci ed i posti letto delle terapie intensive sono limitati.
La situazione è ulteriormente complicata dalla chiusura a gennaio da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del valico di Yaroubiyah dall’Iraq al nord-est della Siria. In questo modo Russia e Cina, che appoggiano il governo siriano di Bashar Al Assad, vogliono che gli aiuti umanitari passino esclusivamente attraverso Damasco. Il governo siriano però non riconosce pienamente il Rojava ed utilizza l’emergenza sanitaria come arma politica contro i curdi, rendendo difficile per gli attori umanitari fornire aiuti alla popolazione.
Una situazione d’emergenza che rischia di mettere ulteriormente in ginocchio la resistenza curda e l’esperienza rivoluzionaria di democrazia dal basso del Confederalismo Democratico, modello di governo istituito nel 2014 in Rojava. Nel nord-est della Siria infatti non si combatte solo per il riconoscimento di una nazione curda ma soprattutto per creare all’interno di una delle regioni più instabili e repressive del mondo una realtà di speranza, fondata su concetti rivoluzionari quali il municipalismo libertario, l’ecologia sociale, l’uguaglianza di genere ed un modello di autogoverno popolare che possa far convivere pacificamene diverse etnie.
Per questo nobile ideale combattono ogni giorno migliaia di persone,curde e non solo, come dimostrano i tanti volontari stranieri giunti negli anni in Siria a sostegno del Rojava, tra questi il compianto Lorenzo Orsetti. Sarebbe perciò dovere morale dei paesi occidentali, che si ispirano ai principi di democrazia e giustizia sociale, dare pieno sostegno alla causa curda.
Invece in Italia si assiste ad un silenzio imbarazzante, interrotto sporadicamente da notizie approssimative. Addirittura si verificano fenomeni di persecuzione giudiziaria verso i volontari di ritorno dalla Siria: emblematico il caso di Maria Edgarda Marcucci, condannata a 2 anni di sorveglianza speciale poichè ritenuta un possibile pericolo sociale in virtù della sua militanza nei gruppi armati a sostegno dello Ypg.
Ancora più delle bombe turche, ancora più del Covid, i principali nemici della rivoluzione confederale sono l’indifferenza delle masse e l’assenza di un movimento di carattere globale che, come avvenne per il Vietnam, eserciti pressioni nei confronti della comunità internazionale. Oggi più di un anno fa, torniamo a parlare del Rojava.