È tutto pronto per la riapertura delle scuole. O no?
La scuola è stata chiusa per sei mesi, ma dalla sua riapertura passa una parte rilevante del futuro del paese. Non tutto, però, è ancora pronto e funzionante come dovrebbe essere
La scuola è stata chiusa per sei mesi, ma dalla sua riapertura passa una parte rilevante del futuro del paese. Non tutto, però, è ancora pronto e funzionante come dovrebbe essere
Oggi ricomincia in molte città l’anno scolastico, con alcuni istituti in diverse località che riaprono le porte agli studenti. La provincia di Bolzano è la prima a riaprire tutti gli istituti; nel resto del paese si procederà a partire da settimana prossima — con molte eccezioni. Oggi, ad esempio, riaprono le scuole di Vo’ Euganeo, uno dei primi comuni ad essere colpiti dal Coronavirus in Italia. La prima scuola in assoluto ad aprire, però, è stata il Liceo scientifico per professioni di montagna di Tione, a Trento, aperto già dal 2 di settembre. Le ultime regioni a ritornare in classe dovrebbero essere Puglia, Basilicata e Calabria — e forse Campania — che riapriranno addirittura il 24, dopo la tornata elettorale, principalmente per risparmiare sulle procedure di sanificazione.
Le scuole hanno chiuso a partire dalle “zone rosse” e dalla Lombardia, dove la chiusura è datata 24 febbraio: in teoria avrebbero dovuto riaprire dopo una settimana, poi all’8 di marzo. Gli alunni non tornano tra i banchi di scuola da sei mesi: la chiusura forzata più lunga, a livello nazionale, da che esista il sistema di istruzione pubblico, e il paese stesso. Mentre si cominciava a capire che la pandemia avrebbe avuto effetti di notevole dimensione e durata, le scuole sono state la prima parte di vita italiana a venire messa da parte — visto che, com’è noto, le scuole non sono attività produttive, che possano fare lobbying tramite Confindustria per restare aperte a tutti i costi.
Già, ma come ripartirà la scuola? Secondo quanto riporta la Repubblica, sarà una ripartenza dimezzata, e una larga fetta degli alunni ritornerà a scuola “attraverso il pc.” Nella maggior parte degli istituti superiori, si starebbe cercando di limitare il ricorso alla Dad — la didattica a distanza — soprattutto per le prime e, in misura minore, le quinte: le altre classi potrebbero trovarsi a farne un utilizzo massiccio. Il governo ha comunque lasciato alle scuole, in ossequio all’autonomia scolastica, la scelta di decidere come ottemperare alle misure di sicurezza, anche attraverso l’organizzazione degli orari — che si sta rivelando piuttosto creativa.
Fin dall’inizio della pandemia, molti istituti e lavoratori scolastici, con cui abbiamo avuto occasione di parlare, hanno riferito la sensazione che l’autonomia sia un buon modo per indicare una politica del governo che in realtà ha le caratteristiche dello scaricabarile. Del resto, l’esecutivo — alle prese con un fenomeno pandemico fuori controllo, senza i mezzi necessari per gestirlo in modo del tutto adeguato — ha delegato alla responsabilità individuale molti aspetti della prevenzione del contagio, raggiungendo vette stucchevoli e generando episodi di caccia all’untore come quella ai runner. A scuola, questo si è tradotto in una sensazione di spaesamento diffuso, ad esempio sulla gestione della didattica a distanza, effettuata tramite strumenti discrezionali e privati anziché su piattaforme omogenee e ministeriali. E mentre sei mesi fa questa mancanza di risorse umane e fisiche era in qualche modo giustificabile, oggi non lo è più.
Secondo la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, “la scuola non è un posto fatato” e il rischio di contagio non può essere ridotto a zero. Ha inoltre ricordato che, in caso di quarantena, la didattica proseguirà a casa con la Dad, e si potrà uscire dall’isolamento appena ricevuto un tampone negativo. La ministra ha anche fatto notare ai docenti non possono rifiutarsi di effettuare la Dad, e che la temperatura si misura a casa, ufficialmente per ridurre ancora di più il rischio di contagio.
I docenti forse non possono rifiutarsi di praticare la Dad, ma ci sono buoni motivi per provare a far di tutto per evitarla. Il principale sono i timori sull’abbandono scolastico nei mesi di lockdown in cui si è praticata esclusivamente la didattica a distanza, sul quale mancano dati esaustivi, ma che è stata segnalata da numerosi insegnanti e presidi. C’è, però, qualche dato su come la Dad sia un problema per le fasce di reddito più basse: Il 12,3% degli alunni tra i 6 e i 17 anni non possiedono PC o tablet, con punte del 20% nel Mezzogiorno si arriva al 20%; il 57% devono condividerli con altri membri della famiglia. Due terzi dei ragazzi coinvolti nella Dad hanno inoltre competenze digitali scarse o basiche. La Dad, insomma, non è la traduzione immediata di quanto si fa a scuola tramite lo schermo di un pc, ma richiederebbe almeno una pianificazione molto più ragionata — e molti più investimenti — per poter garantire il diritto allo studio senza disuguaglianze.
Per quanto riguarda quanto invece è responsabilità diretta del ministero e dello stato, senza possibilità di scorciatoie, non tutto è ancora pronto. Mancano ancora migliaia di docenti: nonostante quanto sostenuto dal ministro dell’Economia Gualtieri, che ha sostenuto di aver firmato un decreto per l’assunzione di 85 mila professori, probabilmente i due terzi di questi rimarranno “virtuali,” grazie — come al solito — a un utilizzo estensivo e indebito della supplenza, cercando di risparmiare in ogni modo e il più possibile, e a procedure burocratiche fumose, incomprensibili ed elefantiache.
Per ora, inoltre, sono arrivati pochissimi banchi monoposto. Questo è un problema, perché quasi tutti gli istituti avevano calcolato la distanza di sicurezza di un metro sulla base della disponibilità immediata dei nuovi tavoli: questo significa che, in alcuni istituti e in alcune classi, gli alunni potrebbero essere costretti a tenere la mascherina per tutta la loro permanenza in classe. Inizialmente la data di scadenza per la consegna era oggi, ma è stata progressivamente spostata addirittura a fine ottobre — slittamento per cui il commissario Arcuri è stato oggetto di pesanti critiche. Nell’attesa, c’è chi ha preferito ricorrere a metodi artigianali: diversi presidi si sono risolti a segare i vecchi banchi normali per ottenerne due monoposto — non è chiaro come facciano a stare in piedi: misteri della fisica.
Ieri Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi, ha scritto una lettera con 10 domande al ministero: una per ogni punto che necessita chiarimenti urgenti. Qualche esempio? La gestione dello smartworking da parte del personale Ata; l’utilizzo del pasto domestico — la “schiscetta”; le tempistiche dell’organico Covid. Il termine “organico Covid” non indica l’assunzione del virus come membro del corpo docente, bensì il referente che ogni scuola dovrà trovare e indicare per fare informazione a personale e famiglie; ricevere segnalazioni di possibili contagi e trasmetterle alla Asl; organizzare un sistema di aiuto per gli alunni con fragilità.
In un paese come il nostro, già segnato da tassi di abbandono scolastico più alti della media europea, anche prima della pandemiae che per anni ha visto tagli lineari sempre più invalidanti a tutto il sistema scuola, è fondamentale che l’istruzione venga tutelata e siano dedicati investimenti veri, non di facciata o superficiali. Nonostante ciclicamente — ad esempio proprio oggi — escano dati sul fatto che in Italia i lavoratori le persone siano spesso sovraqualificate per gli impieghi che poi si trovano a ricoprire, insinuando che forse si farebbe meglio ad andare a lavorare anziché a baloccarsi con cose come l’università, l’Italia ha la seconda percentuale più bassa di laureati dell’intera Unione Europea. — Nonostante, come dicevamo, la scuola non sia una fonte di reddito immediata e non abbia mezzi di persuasione presso il governo come altri settori del paese, dal suo funzionamento passa una parte importante del futuro dell’Italia e di chi si trova ad abitarci.
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