La guida di the Submarine al referendum sul taglio dei parlamentari
Tagliando un terzo dei parlamentari, l’Italia avrebbe un eletto ogni 151mila abitanti — e questo rischia di minare ulteriormente il senso della rappresentanza democratica.
Tagliando un terzo dei parlamentari, l’Italia avrebbe un eletto ogni 151mila abitanti — e questo rischia di minare ulteriormente il senso della rappresentanza democratica
Si vota tra meno di un mese, ma se ne parla poco: il 20 e il 21 settembre si terrà il referendum costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari alla Camera e al Senato. È una riforma costituzionale di proporzioni imponenti — prevede il taglio di circa un terzo dei parlamentari — ma che è stata sostanzialmente dimenticata, sia a causa della pandemia che dell’imbarazzo con cui una gran parte della politica italiana affronta il tema.
Ma in che cosa consiste? Il testo è molto semplice: riduce il numero di seggi alla Camera a 400 — da 630, meno 230 persone — e al Senato a 200 — da 315, meno 115. Se votate Sì, come farà probabilmente la maggioranza degli italiani che andranno a votare, siete d’accordo; se votate No, preferireste che il numero dei parlamentari non venisse ridimensionato. La riforma è arrivata al referendum attraverso una strada tortuosa — l’idea di un taglio dei parlamentari è dominante nel dibattito politico ormai da anni.
È figlia soprattutto della linea tranchant del governo Conte I, ed esiste puramente con uno scopo: tagliare, più o meno simbolicamente, i costi della politica, uno dei cavalli di battaglia del M5s.lo aveva spiegato nell’ottobre 2018 il pentastellato Riccardo Fraccaro, che aveva chiamato la legge “il più grande taglio ai costi della politica di sempre.” La cifra dichiarata dal partito all’epoca, 100 milioni di euro all’anno, è bassissima già in annate normali, ma sembra ancora più risibile in questa fase in cui si cercano di limitare i danni all’economia del Covid–19. Ogni risparmio può essere utile, ovviamente, ma questo è così contenuto da far sorridere. I famosi 100 milioni, tra l’altro, sarebbero 100 solo nel mondo del Movimento 5 Stelle: secondo un calcolo dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli il risparmio sarebbe di poco più della metà, 57 milioni. Basti ricordare che per il 2019 — prima del Covid–19 — lo stesso governo aveva stanziato 7,1 miliardi di euro per il reddito di cittadinanza. A voler essere precisi, insomma, il risparmio è dello 0,007 percento della spesa pubblica italiana.
L’iter della riforma è stato segnato dalla conclusione rocambolesca del governo Conte I: lo scorso maggio il testo era stato approvato alla Camera senza modifiche, con il voto del M5S e di tutti i partiti di destra, ma con l’opposizione di quelli che all’epoca erano all’opposizione. Solo pochi mesi e un cambio di coalizioni dopo, la riforma sarebbe stata approvata — siamo ad ottobre 2019 — diventando il testo con il più alto numero di voti favorevoli dall’inizio della legislatura.
All’epoca dell’approvazione, Di Maio presentava come prova di buona volontà democratica il fatto che il taglio trasversale mantenesse il bicameralismo — una stilettata nemmeno tanto nascosta alla fallita riforma costituzionale di Matteo Renzi. All’epoca, l’idillio leghista-pentastellato sembrava destinato a durare in eterno — ci teniamo a ricordarvi Salvini a Pontida 2018: “Governeremo per altri 30 anni. Non ci faranno litigare con il M5s.” Era una riforma che si collocava in un piano più ampio di trasformazione della forma di Stato che i due partiti avevano in mente per l’Italia, nel contesto di uno smantellamento della Repubblica uscita dalla guerra civile antifascista e dall’Assemblea costituente. Non per niente, insieme a questa riforma i due partiti avevano presentato una proposta per il referendum propositivo, presentato come un nuovo strumento di “democrazia diretta” — con cui “il popolo” potesse “proporre e approvare leggi di qualsiasi tipo.”
Capire la collocazione della riforma all’interno dell’operato di quel governo serve per capirne l’effetto più diretto: un controllo molto più stretto dei partiti e delle correnti sul parlamento stesso. Come ha spiegato la settimana scorsa Alessandro Calvi su Internazionale, infatti, la riforma è soprattutto una “vittoria dei partiti”: riducendo in modo drastico la rappresentanza, il parlamento finirà inevitabilmente sotto un controllo ancora più ferreo dei leader politici. È il compimento di una metamorfosi che in Italia è in atto da quasi tre decenni: non ci sono più i grandi partiti, popolari ma anche di profilo istituzionale, che al proprio interno ospitavano voci divergenti e temi locali o regionali. Al loro posto ci sono partiti verticistici, quasi da repubblica presidenziale, che rispondono alla linea dettata dal proprio leader, al massimo dal proprio capocorrente. Diminuire il numero dei parlamentari avrà un singolo effetto diretto: creerà gruppi parlamentari più snelli, più facili da controllare, da cui sarà più facile escludere voci discordanti, se non direttamente espressioni di minoranze.
La politica inutile
Con l’eccezione dei partiti più piccoli, per cui il taglio è una questione di vita o di morte, solo nel Pd ci sono infatti ancora malumori riguardo al sostegno della riforma. Tutti gli altri sono a favore, nonostante in praticamente ogni formazione ci sia qualche voce dissidente — anche di medio e grosso calibro, forse le figure che avrebbero più da perdere in una stretta del numero di parlamentari, come Giorgetti, Brunetta, Orfini. Le analisi date hanno diversi livelli di raffinatezza, ovviamente: nel fronte del Sì c’è chi, come nel Movimento 5 Stelle non vede nessun problema di rappresentanza, ma anche chi, come Stefano Ceccanti (PD) cerca di razionalizzare il taglio spiegando che il parlamento può permettersi di dimagrire perché, grazie all’azione di regioni e Unione europea, fa meno di prima — perché non ha più “l’esclusiva del potere normativo.”
Sono posizioni molto distanti, ma che hanno un importante elemento comune: ammettono che almeno parte dell’attività parlamentare sia, effettivamente, inutile, eliminabile. È un approccio retorico molto pericoloso, che mina la base della democrazia: seguendo questa logica si può ridurre effettivamente all’infinito il numero dei parlamentari in nome del risparmio. Infatti, se è vero che finora l’Italia ha il numero di parlamentari eletti più alto d’Europa, una volta che la riforma sarà passata, ci troveremo a eleggere uno dei parlamenti più piccoli del continente. Ma se una parte dell’attività politica è inutile, perché non essere ancora più rigidi e risparmiare ancora di più? È un meccanismo che non arriva mai alla fine.
Certo, si potrebbe obiettare che il sistema politico attuale è figlio di una carta costituzionale che ha ormai tre quarti di secolo, e vada dunque rivisto. È interessante notare, però — e forse dovrebbe notarlo chi sostiene posizioni come quella di Ceccanti — che alla fine della Seconda guerra mondiale il paese contava circa 45 milioni di abitanti: più di 15 in meno rispetto ad oggi — quindi, a voler provocare, si potrebbe addirittura rilanciare e proporre un aumento del numero dei parlamentari. Oggi, c’è un parlamentare ogni 96 mila abitanti; dopo il referendum, ce ne sarà uno ogni 151 mila.
A questo punto vale la pena aprire una piccola parentesi storica, perché il numero di parlamentari non venne scelto a caso, ma fu al contrario oggetto di una lunga discussione tra i membri dell’Assemblea Costituente — pubblicata nei giorni scorsi da Left. Il nodo centrale della discussione era proprio il numero di abitanti per parlamentare: la decisione finale consisteva nel prevedere l’elezione di un deputato ogni 80 mila abitanti (o per frazioni superiori ai 40 mila), e un senatore ogni 200 mila (o frazioni superiori ai 100 mila). La riforma che si vota questo settembre, insomma, ci porta parecchio lontano dagli intenti originali degli autori della Carta: il numero di parlamentari è ridotto di un terzo, ma il rapporto con la popolazione è quasi dimezzato rispetto agli intenti di chi ha formulato la nostra Costituzione.
Ciò significa che la riforma non avrà ripercussioni solo sul funzionamento interno del Parlamento, ma anche sui rapporti tra le istituzioni e l’elettorato. Saranno svantaggiati soprattutto gli appartenenti alle comunità più piccole e diverse, a tutto vantaggio dei grandi agglomerati di popolazione e di potere, che possono vedere riconosciuti i loro interessi anche con meno parlamentari espressi dal proprio territorio. Per esempio, già oggi Milano è divisa in vari collegi elettorali, mentre l’intera provincia di Sondrio non copre nemmeno il proprio. Nel caso di un’ulteriore rarefazione dei parlamentari, i cittadini milanesi potranno comunque essere rappresentati da un altro parlamentare della propria zona — lo stesso, forse, non potrà dirsi per i cittadini valtellinesi.
Suona quindi paradossale che il Partito democratico, che si fregia di un nome così impegnativo, sia così imbarazzato dalla riforma, e propenso a votare sì. In un’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera, il segretario Nicola Zingaretti si è spinto a dichiarare che “sosteniamo da sempre la riduzione del numero dei parlamentari,” ma “per votare sì e far nascere il governo abbiamo chiesto modifiche dei regolamenti parlamentari e una nuova legge elettorale, per scongiurare rischi di distorsioni nella rappresentanza e tutelare adeguatamente i territori, il pluralismo e le minoranze.”
Oltre al taglio dei parlamentari, infatti, al momento in cui scriviamo non dovrebbe succedere nient’altro: la riforma elettorale richiesta oggi da Zingaretti è ancora nel mondo delle ipotesi, e non è chiaro come e quando verrà tradotta in una proposta concreta. Il capo politico del M5s, Vito Crimi, ha comunque rassicurato l’alleato sul fatto che “i patti li manteniamo” e che dunque la legge si farà. I patti sono stati presi, come ha fatto intendere lo stesso Zingaretti, fin dalla creazione del governo giallorosso, e pubblicamente: il Pd appoggia il taglio dei parlamentari, ma il M5s si impegna su tre fronti: il primo ovviamente è quello di una nuova legge elettorale, ma si dovevano aprire cantieri anche sulla questione dell’autonomia differenziata, ma anche il coinvolgimento delle regioni nel procedimento legislativo. Un altro fronte su cui si è già lavorato: la riforma che permetterà il voto al Senato già dai 18 anni, e di essere eletti come senatori già dai 25.
In realtà, sembra prefigurarsi l’ennesimo provvedimento di destra approvato “a malincuore” dal Partito democratico, in un’ottica di quieto vivere e non aprire spazi ad altre formazioni politiche. Quanto detto da Zingaretti non è del tutto vero: in primis perché il Pd a questa riforma aveva votato contro, finché, grazie alla pro gamer move di Matteo Salvini, non si è trovato al governo. Questo slittamento, deciso unicamente per tatticismo politico, è stato così ripido che tuttora nel Pd restano molte le voci contrarie. C’è chi, come Orfini, sostanzialmente riprende la posizione del segretario, ma con un tono di voce più alto, e chiede che il M5S rispetti le condizioni che ha accettato quando si è formato il governo Conte 2 — ma anche chi, come Cuperlo, si è schierato apertamente per il No, perché la “politica non ha prezzo,” e sicuramente non ha un prezzo così basso: questa riforma, in pratica, ci fa risparmiare un euro a testa all’anno.
Ma allora, se i risparmi sono così tenui e i rischi così numerosi, perché sostenere una riforma come questa? Il motivo più vero dietro il Sì è insomma una lettura fatalista della politica italiana, ormai schiacciata su leaderismo e meccanismi settari. Il risultato è una forma di azione politica — e di governo! — che nel corso degli ultimi decenni ha esautorato completamente il parlamento. In questo senso, ridurre il numero dei parlamentari serve a rendere questo meccanismo piú efficiente: è evidente che il parlamento così com’è non sta aiutando a mantenere la politica radicata sui territori e vicina alle necessità delle persone e delle minoranze — per cui, tanto vale fare in modo che sia funzionale al modello di politica attualmente vigente in Italia. Almeno finché non succede qualcosa che riesca ad abbattere anche questo modello.
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