La crisi politica in Libano è appena iniziata
Hassan Diab, un docente universitario prestato alla politica, aveva formato un governo di tecnocrati per rispondere alle proteste dello scorso autunno. Ora il paese rischia la paralisi politica
in copertina, Diab presenta le proprie dimissioni al presidente Aoun. Foto via Twitter
Hassan Diab, un docente universitario prestato alla politica, aveva formato un governo di tecnocrati per rispondere alle proteste dello scorso autunno. Ora il paese rischia la paralisi politica
In un messaggio televisivo il Primo ministro libanese Hassan Diab ha annunciato le proprie dimissioni: “Oggi ascoltiamo il popolo, e le loro richieste, ed è per questo che annuncio le mie dimissioni dal governo.” Diab ha attaccato la classe politica “corrotta” che ha governato il paese negli ultimi trent’anni. Le sue dimissioni arrivano dopo un weekend di proteste intensissime che chiedevano giustizia per il disastro di martedì scorso. Poco dopo, il Presidente Michel Aoun ha accettato le dimissioni di Diab, chiedendo però al governo di rimanere in carica ad interim finché non verrà formato un nuovo gabinetto.
Durante il weekend, sotto la pressione delle proteste, c’erano già state numerose dimissioni: sabato si erano dimessi Manal Abdel Samad, ministra all’Informazione, e Damianos Kattar, all’Ambiente. Ieri, nelle ore precedenti all’annuncio di Diab, avevano fatto un passo indietro anche la ministra alla Giustizia Marie–Claude Najm e il ministro dell’Economia Ghazi Wazni.
Va sottolineato che il governo Diab ha poco a che fare con i problemi sistemici che colpiscono il paese: Diab, un docente di ingegneria prestato alla politica, si era presentato come “uno dei rari politici tecnici dall’indipendenza del Libano” e aveva formato un gabinetto che era stato presentato, appunto, come di “tecnocrati.” Il governo era nato in risposta alle proteste inter–settarie che avevano ottenuto le dimissioni di Saad Hariri. All’epoca, Diab aveva indicato le proteste come “storiche” e aveva promesso di difendere i diritti a una “vita libera e dignitosa” dei cittadini libanesi. La sua popolarità, però, è durata pochissimo: non solo a causa degli effetti devastanti sull’economia del coronavirus, ma per la sua attitudine poco adatta al momento di crisi — veniva sempre deriso per i propri discorsi magniloquenti, in cui si dipingeva come vittima di inganni e complotti, per giustificare l’inefficacia delle misure di fronte a una crisi economica insostenibile. La credibilità del governo era ai minimi storici anche a livello internazionale: durante la teleconferenza per la raccolta di fondi organizzata dalla Francia — sono stati raccolti 250 milioni di euro — è stato specificato che le risorse saranno “consegnate direttamente alla popolazione libanese.”
L’annuncio delle dimissioni di Diab è stato accolto con tripudio per le strade di Beirut, con le macchine che passavano suonando il clacson. Ma poi in tantissimi sono tornati in strada per protestare, scettici che la politica sarà in grado di trovare una risposta alla corruzione e alla crisi economica. Secondo l’analista Mayssoun Sukarieh, la decisione di mantenere Diab e il resto del gabinetto ad interim si tradurrà in tempi ancora più dilatati per trovare un nuovo Primo ministro, e il rischio è la completa paralisi politica.
Se è difficile collegare direttamente Diab e il suo governo alla crisi economica e alla diffusa malamministrazione che ha portato anche al disastro di martedì, al contrario è completamente responsabilità del governo attuale la repressione violenta delle proteste dei giorni scorsi, che, secondo un’indagine di Timour Azhari, ha violato gli standard internazionali per l’uso della forza. L’inchiesta, edita su Al Jazeera, è basata su immagini e riprese open source e testimonia l’uso di violenza eccessivo da parte delle forze di sicurezza libanesi. Specificamente, i principi fissati dalle Nazioni Unite stabiliscono che le forze dell’ordine possano aprire il fuoco soltanto per legittima difesa propria o di terzi, o per prevenire crimini gravi, che mettono in pericolo vite umane. I materiali raccolti, invece, mostrano ufficiali, alcuni anche in borghese, che aprivano il fuoco indiscriminatamente.
Ma come ci è arrivato tutto quel nitrato d’ammonio nel porto di Beirut? Diverse ricostruzioni raccontano di una vecchia nave russa, la Rhosus, che aveva attraccato a Beirut mentre trasportava il materiale in Mozambico. La Rhosus, indebitata e imbrigliata in dispute diplomatiche, era anche in condizioni difficili: viaggiava con un buco sullo scafo che costringeva il personale a bordo a continuare a pompare acqua fuori dalla nave. Nel 2013 la nave è arrivata a Beirut, e non si è più spostata di lì. Dopo qualche tempo, il suo carico, più di duemila tonnellate di nitrato d’ammonio, sarebbe stato spostato in un magazzino del porto.
L’attenzione di tutti in Libano è sulle indagini che cercheranno di dare un colpevole alla decisione di lasciare migliaia di tonnellate di materiali esplosivi nel porto della città. Il governo ha annunciato che i responsabili saranno posti agli arresti domiciliari “al più presto” — ma l’opinione pubblica è rimasta profondamente scossa dalla notizia che dei funzionari fossero a conoscenza della fonte di pericolo in città, e non abbiano mai fatto niente. Nei giorni scorsi il primo hashtag in Libano era #علقوا_المشانق, “preparate i cappi.” Ramez al-Qadi, un famoso conduttore libanese, aveva commentato le esplosioni a Beirut dicendo che “O li ammazziamo o continueranno ad ucciderci.” Amnesty International ha chiesto che sia organizzata un’indagine internazionale per investigare sulle cause del disastro.