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La multinazionale formerà dal prossimo anno scolastico i docenti di educazione ambientale, l’ennesima trovata per mantenere un ecologismo solo di facciata

Tra un mese e mezzo ripartiranno le scuole, tra linee guida sommarie, misure di sicurezza non chiare e banchi monoposto ancora non prodotti. Una delle poche novità certe è invece rappresentata dall’introduzione dell’insegnamento dell’educazione ambientale in ogni scuola di ordine e grado. La materia si chiamerà “sviluppo sostenibile” e l’Italia da settembre diventerà il primo paese al mondo a renderne obbligatorio l’insegnamento, per 33 ore complessive di lezione. La decisione, presa un anno fa dall’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, ha incassato un plauso bipartisan. A gennaio 2020, invece, è passata più in sordina la notizia che a formare gli insegnanti della nuova materia contribuirà Eni, una delle maggiori aziende internazionali che estraggono e producono petrolio e gas, oltre che una partecipata dello Stato italiano.

Il programma congiunto presentato a Roma dal presidente dell’Associazione Nazionale Presidi (Anp), Antonello Giannelli, e dal Chief Services & Stakeholder Relations Officer di Eni, Claudio Granata, prevede a partire dal prossimo anno scolastico una serie di incontri formativi gratuiti per i docenti sui temi della sostenibilità ambientale. La collaborazione tra Anp e Eni era partita già dallo scorso anno a Roma, Milano e Bologna.

Per quanto sia senza dubbio importante che nelle scuole italiane si inizi a parlare in modo serio e sistematico di clima e ambiente, sembra invece paradossale che l’Anp abbia dato mandato proprio a Eni di occuparsi della formazione dei docenti — vanificando i buoni propositi intorno all’iniziativa. Tanto più che si apprende che i seminari verteranno su quattro macro tematiche delicate e che interessano l’azienda come cambiamento climatico, rifiuti, efficienza energetica e bonifica dei siti contaminati.

Il problema di Eni che forma maestri e professori non si limita al fatto che una multinazionale tra le più potenti del mondo, che estrae e commercia combustibili fossili e che è accusata di diversi disastri ambientali, pretende di formare persone all’ambientalismo: ma, più nello specifico, è che la recente narrazione dell’azienda tenta di coprire quanto di non sostenibile fatto in questi anni, senza una reale volontà di cambiamento e di decarbonizzazione.

Tra le prime a mobilitarsi contro l’accordo tra Anp e Eni ci sono state le insegnanti di Teachers for Future, collettivo parte del movimento dei Fridays for Future. In un comunicato hanno fatto notare come Eni continua “a fare un uso sfrenato dei combustibili fossili” ed “è responsabile di immani devastazioni ambientali, dello sfruttamento dei paesi poveri, di corruzione e greenwashing”, aggiungendo anche che “Eni è e resta il simbolo assoluto del sistema che il nostro movimento vuole cambiare per ottenere giustizia climatica e ambientale (…)”. Le insegnanti hanno invitato pertanto i colleghi a boicottare i seminari in programma.

Può stupire che Eni voglia avere voce in capitolo anche nell’educazione civica e ambientale dei ragazzi, ma dal punto di vista dell’azienda questa iniziativa è perfettamente in linea con la comunicazione sostenibile che porta avanti da qualche tempo.

Si tratta del greenwashing citato nel comunicato delle Teachers for Future: una secchiata di vernice verde, tra spot, annunci e progetti, a coprire esteriormente quello che verde non è.

La realtà, come detto, è però un’altra. Solo per citare alcuni numeri, Eni a oggi opera in 66 paesi, ha 32 mila dipendenti ed è la più grande azienda italiana per fatturato con 75 miliardi di euro. Nell’ultimo anno ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno — mai così tanti — e veduto 73 miliardi di metri cubi di gas, mentre investe solo l’1% del proprio fatturato, 142 milioni, in energie rinnovabili.

Eni però ha impiegato gran parte dei suoi sforzi comunicativi, e dei suoi soldi destinati al settore, per la narrazione di quelle che sono voci marginali del suo business, progetti pilota o sperimentazioni sulle rinnovabili, mentre il core business resta il petrolio. Solo nel 2019 l’azienda ha speso in pubblicità, promozione e attività di comunicazione 73 milioni di euro. Questa cifra è circa la metà di quanto Eni prevede di spendere ogni anno fino al 2023 nell’economia circolare, che è uno dei maggiori oggetti dei suoi recenti spot. Nell’ultimo anno invece la multinazionale ha acquisito altri 29.300 kmq di titoli esplorativi distribuiti tra Messico, Indonesia, Marocco, Libano e Alaska.

Il CDCA (Centro di documentazione sui Conflitti ambientali) di A Sud Onlus quest’anno ha pubblicato un corposo dossier dal titolo esplicativo Follow the green. La narrazione di Eni alla prova dei fatti nel quale per ogni annuncio, pubblicazione o podcast targato Eni su un dato tema viene contrapposta la “lente della presbiopia” con cui vengono inquadrate le cose da più vicino, andando a smentire le narrazioni con i dati —dati che vengono forniti quasi sempre dall’azienda stessa.

È di gennaio di quest’anno la prima sentenza che smaschera il greenwashing dell’azienda. L’Antitrust ha condannato Eni al pagamento di una multa di 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole sull’ENIDiesel+, o “green diesel”.

Lo spot racconta un diesel che “riduce le emissioni gassose fino al 40%”, ma secondo l’Antitrust questo diesel non può dirsi sostenibile visto che è prodotto con olio di palma indonesiano causando deforestazione.

I problemi con Eni non derivano solo dall’autonarrazione poco convincentee dalla scarsa attenzione ai cambiamenti climatici, ma anche dal fatto che Eni continua a tacere e negare l’inquinamento e l’impatto sui territori in cui opera. A questo proposito hanno espresso la loro preoccupazione per il binomio Eni-scuola anche altre associazioni ambientaliste tra cui Legambiente, Greenpeace e Kyoto Club che in una nota congiunta auspicano un percorso didattico “svolto da soggetti terzi, rappresentanti degli interessi collettivi e non di un’azienda privata che, non solo fa profitti sfruttando i fossili, ma che, in questi anni è stata responsabile di grandi impatti ambientali sul nostro territorio.”

A Potenza per esempio è in corso il processo sullo smaltimento illegale di rifiuti da parte di Eni tramite la reimmissione di acque di processo in alcuni pozzi in Val d’Agri, dove la multinazionale possiede lo stabilimento più grande d’Europa su terraferma. Inoltre è conclamata una fuoriuscita dai serbatoi di 400 tonnellate di petrolio per cui è stato arrestato ad aprile dello scorso anno un dirigente di Eni, con l’accusa di disastro ambientale, abuso d’ufficio e falso ideologico.

Anche il caso di Gela, città in cui dagli anni ‘50 è presente un polo petrolchimico, è emblematico. Gli impianti dal 2014 sono stati riconvertiti in una “bio” raffineria alimentata a olio di palma, che però produce ancora prodotti petroliferi. A Gela Eni ha già promosso diversi progetti scolastici e di alternanza scuola lavoro, oltre a finanziare attrezzature per alcuni istituti, cercando in questo modo di far cambiare il sentimento di diffidenza della comunità e soprattutto dei più giovani nei confronti della raffineria. Eni è infatti accusata di avere inquinato il territorio gelese per decenni ed è sotto processo per disastro ambientale

I guai giudiziari di Eni non si fermano qui e a ricordare che Eni non possa essere considerata un modello positivo di azienda che possa fare scuola c’è anche il processo in corso per le tangenti che l’azienda avrebbe pagato in Nigeria per dei diritti di esplorazione petrolifera. Per Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, e per il suo predecessore Paolo Scaroni, il pm ha chiesto 8 anni di carcere.

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