Ciclicamente si torna a polemizzare sull’uso di schwa e asterischi al posto del plurale maschile indifferenziato. Ma perché è così difficile parlarne seriamente? L’abbiamo chiesto alla sociolinguista Vera Gheno
Da alcuni giorni sul web si dibatte una questione linguistica. Non tanto perché improvvisamente interessi a qualcuno, ma perché il giornalista Mattia Feltri ha tentato di ridicolizzare sulle pagine della Stampa la proposta della sociolinguista Vera Gheno: sostituire, per lo meno in certi contesti, il maschile generalizzato con l’uso dello schwa, ossia una e rovesciata [ə]. Una proposta che ha trovato dei sostenitori specialmente tra la comunità LGBTQ+, da sempre impegnata nella ricerca di un linguaggio inclusivo, ma che ha scatenato le ire dei sedicenti amanti della tradizione. È intervenuta anche l’Accademia della Crusca, per cui Vera Gheno ha lavorato quasi per vent’anni, ma l’ha fatto per prendere le distanze. Per capirci qualcosa di più, l’abbiamo intervistata.
Vera Gheno, a che punto siamo di questa vicenda?
Cerco di riassumere: sono alcuni anni che mi occupo di questioni di genere, e tutto quello che è successo non si differenzia in alcun modo da quanto ho visto accadere in passato. Ogni tanto, una particolare istanza che fa parte di una questione più grande viene messa in primo piano, spesso in modo distorto; segue un lungo dibattito estremamente polarizzato in cui, quasi subito, ci si mette a parlare di altro e si perde di vista l’argomento da cui tutto è partito. L’estremizzazione e la distorsione del problema servono per creare il più classico degli argomenti fantoccio, che poi, ovviamente, diventa più semplice da abbattere. E purtroppo, per quanto si possa rettificare, la proposizione iniziale, per quanto errata, tende a prevalere. Per esempio, ancora oggi molti sono convinti che Laura Boldrini volesse farsi chiamare “presidenta,” invenzione giornalistica nata per screditarla, quando ovunque si troveranno testimonianze del fatto che lei ha sempre e solo richiesto di essere chiamata “signora presidente” invece di “signor presidente.”
Molti ricorderanno la discussione sull’aggettivo “petaloso,” proposta da una docente che l’aveva trovato nel compito di un bambino. Lei all’epoca collaborava con l’Accademia della Crusca, dove è rimasta fino a un anno fa. Quella discussione finì anche sulla stampa internazionale. Allora la risposta che fu data al bambino, alla maestra e al pubblico, fu che la lingua la fa chi la parla, la società che la abita. Cosa c’è di diverso in questo caso?
La mia allora collega Maria Cristina Torchia, valentissima sociolinguista, rispose direttamente al ragazzino, Matteo (fu lui a contattare l’Accademia), spiegandogli che, anche se l’aggettivo era ben formato (si possono formare aggettivi in –oso di quel tipo, si pensi a peloso o sassoso), non basta inventare una parola, ma occorre che quella parola venga usata da un gran numero di persone e per un periodo sufficientemente lungo. La discussione infuriò per alcuni giorni; ma vorrei ricordare che a oggi petaloso non è registrato nei dizionari, perché è poco o per nulla usato in contesti naturali: in altre parole, le persone usano petaloso per parlare di petaloso, in modo meta.
A dire il vero, non c’è nulla di particolarmente diverso in questo caso. Per quanto mi riguarda, stiamo vivendo un periodo linguisticamente molto frizzante; e tale “frizzantezza” è legata a sommovimenti sociali e culturali in atto. Continuo a pensare che la lingua la facciano i parlanti. Alcuni colleghi preferiscono specificare che hanno più rilevanza, nel provocare cambiamenti linguistici, i parlanti colti; è probabile che sia così, ma pure i parlanti colti devono tenere conto di cosa succede tra i parlanti “non colti.”
Questo epic fail ricorda un po’ la polemica infinita degli omofobi che rifiutano l’acronimo LGBT+ e le lettere che man mano si aggiungono. Ma per chi volesse davvero capire, che cos’è lo schwa e perché lei lo preferisce?
Non parlerei di epic fail. Vedo la consueta difficoltà a misurarsi con un argomento “caldo,” che riguarda settori della società che, per motivi vari, sono secondo me lontani dall’aver raggiunto una parità in termini di diritti civili o forse, ancora più latamente, di possibilità all’interno della società civile. Mi riferisco sia alle donne – a proposito delle quali spesso viene negato tout court che esista un problema di mancata parità – sia alle categorie rappresentate dalle varie lettere della sigla LGBT+. Detto questo, spiego brevemente la questione. Prima ho accennato che mi occupo da qualche tempo di questioni di genere. Ho scritto un libro, per chi volesse andare a fondo della questione, e recentemente ho potuto sintetizzare ciò che penso della questione dei femminili professionali in due articoli brevi, divulgativi, per un sito che si chiama Linguisticamente (qui e qui)
Una questione parzialmente collegata al tema dei femminili professionali è quella di come rivolgersi a una pluralità mista. Normalmente, l’italiano prevede che anche in presenza di un solo maschio si passi al maschile sovraesteso: “I ragazzi sono tutti qui” (magari sono quaranta ragazze e un ragazzo).
La cosa era già stata dibattuta dalla linguista Alma Sabatini nelle sue famose Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (1987). Lei proponeva di fare una valutazione del genere prevalente e poi scegliere, di conseguenza, se usare il maschile o il femminile sovraesteso. Ora, già questo, per la maggior parte delle persone, è un non-problema. Tuttavia, la questione mi si è parata davanti studiando e approfondendo le questioni di genere e quindi qualche domanda me la sono posta. Le domande, poi, sono aumentate quando, nel corso di moltissimi incontri e presentazioni in giro per l’Italia, mi è stato posto un altro dilemma: esiste un modo alternativo per rivolgersi a una moltitudine mista che magari comprenda anche persone non-binarie, ossia che non si identificano né con il maschile né con il femminile?
Lasciando da parte la questione ideologica, da linguista la domanda mi ha ovviamente incuriosita. Ho iniziato a chiedere in giro quali strategie fossero usate (per esempio in alcuni gruppi di attivisti LGBT+, ma non solo) e ne è venuto fuori un elenco molto interessante, che successivamente ho sintetizzato in un articolo. Precedentemente, però, nel summenzionato libro, che si chiama Femminili singolari, a chi obiettava che l’asterisco (car* tutt*) ponesse un problema di pronuncia, avevo ribattuto scherzosamente che si sarebbe potuto introdurre, invece dell’asterisco, l’uso dello schwa, che almeno ha un suono.
Per chi non lo conoscesse, lo schwa o scevà (nome italianizzato) è un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, o IPA, che è un alfabeto che permette di rappresentare per iscritto tutti i suoni presenti nelle varie lingue usate da noi esseri umani. Il simbolo dello schwa è una piccola e rovesciata, ə. Non lo si trova, di norma, nelle tastiere standard, ma nella mappa dei caratteri sì. Il suo è “un suono neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità” (ci dice Treccani); sta al centro del quadrilatero vocalico, cioè tra A, E, I, O, U, e, come dico spesso, corrisponde al suono che si emette se non si deforma in alcun modo la bocca, “a bocca rilassata”. Esiste naturalmente in diversi dialetti meridionali (/Nàpulə/). Per quanto io stessa ne veda i limiti fortissimi, ogni tanto, quando scrivo per contesti nei quali le questioni di genere sono particolarmente sentite, scrivo cose come “Carə tuttə.” Per inciso, non sono stata io a coniare la proposta: la questione risale a diversi anni fa; più informazioni si possono trovare sul sito Italiano Inclusivo.
E poi cos’è successo?
La casa editrice per cui ho scritto Femminili Singolari, EffeQu, ha deciso di tradurre un saggio di una femminista brasiliana, Marcia Tiburi, intitolato in italiano Il contrario della solitudine. E poiché in esso l’autrice usa una “forma terza” come todes (invece di todos e todas), ecco che gli editori, Francesco Quatraro e Silvia Costantino, hanno deciso di rendere questa forma inedita con lo schwa: tuttə. Una scelta che spiegano nell’introduzione, citando me e il mio libro come precedente.
Recentemente, durante una serata organizzata da Tlon a Roma, “Prendiamola con filosofia,” ho accennato alla questione; in base all’idea che mi sono fatta, Mattia Feltri deve avere scelto di scrivere uno dei suoi Buongiorno, la rubrica che tiene quotidianamente sulla Stampa, su questo tema, purtroppo senza approfondire (o chiedere lumi) e, soprattutto, parlando di una fantomatica “accademica della Crusca” che promulgherebbe l’uso dello schwa su Facebook. Ho verificato che tra le undici accademiche attualmente in carica e tra le cinque attive su Facebook nessuna aveva parlato di questo, e mi è venuto il dubbio che il giornalista facesse riferimento a me. Per chiarire, ho collaborato con l’ente per quasi vent’anni (in pianta stabile dal 2002 al giugno 2019); non sono mai stata un’accademica (e non mi sono mai definita tale), ma una semplice collaboratrice; da quando ho lasciato l’ente, a fine giugno 2019, non ho mai più usato il loro nome per qualificarmi, anche se talvolta qualcuno incorre nell’errore di pensare che io ancora lavori per la Crusca (il che, comunque, non mi renderebbe accademica). Comunque, poiché l’elzeviro conteneva numerose inesattezze, ho deciso di scrivere una risposta su Facebook tentando di fare, come dire, un po’ di controinformazione.
Nel prendere le distanze da lei, l’Accademia non sembra curarsi del fatto che Mattia Feltri ha inteso ridicolizzare o quantomeno colpire tanto l’Accademia quanto — e soprattutto — lei, senza nemmeno scrivere il suo nome. Come se la sua proposta di utilizzo dello schwa potesse far perdere prestigio all’istituzione. E sottolineando che lei non fosse un’accademica, ma una social media manager.
L’ente ha fatto bene a fare chiarezza su titoli, appartenenze eccetera. Sono la prima a dispiacermi ogni volta che mi vengono attribuite cariche che non ho e posizioni che non ricopro; su questo ho sempre cercato di essere massimamente chiara. Purtroppo, talvolta succede che le persone scrivano le mie biografie di presentazione in base a ciò che trovano su Google, magari senza interpellarmi, e quindi certe qualifiche continuano a circolare. Quando questo succede, faccio sempre correggere, se possibile.
E se da una parte comprendo che fuori dall’ambito accademico si possa far confusione tra “accademica” e “collaboratrice dell’Accademia” (in questo caso, ex collaboratrice), dall’altra mi spiace che un giornalista come Feltri non si sia preoccupato di controllare le mie affiliazioni. Come ha commentato qualcuno sotto al mio post, se fossi stata una calciatrice, magari sarebbe stato più attento a non sbagliare squadra. L’Accademia ha agito come meglio ha creduto; su questo, non ho altri commenti da fare.
Se l’Accademia respinge in maniera così netta simili riflessioni, dobbiamo dedurre che si tratti di un ambiente in cui le persone che potrebbero scrivere di sé utilizzando lo schwa o l’asterisco non siano gradite al suo interno, o addirittura escluse? E come si saranno sentite se già ci lavorano?
Non so rispondere a questo. Io ho sempre conosciuto la Crusca come un ambiente in cui convivono molte idee differenti e in cui sono tollerati punti di vista divergenti tra loro. Non escluderei che qualcuno prossimamente possa decidere di approfondire la questione, chissà. Di sicuro, al di là delle poche annotazioni che ho fatto, io continuerò ad approfondire i temi del linguaggio inclusivo, che trovo affascinanti.
Qual è la situazione all’estero?
Sto raccogliendo informazioni. Ma il primo esempio che mi viene in mente è proprio quello del Brasile e del todes di Marcia Tiburi, a cui ho accennato sopra. Nei paesi anglofoni si discute sull’adozione del pronome they al singolare, alternativo a he/she. In Svezia c’è chi usa il pronome hen, di nuovo con lo stesso intento. Secondo me, al di là dei singoli casi, è bene sapere che le questioni di genere sono dibattute in tante lingue e non sono una quisquilia tutta italiana. Più che di per sé, le ritengo rilevanti come cartina di tornasole di precisi sommovimenti socioculturali. E come tali interessano a me.
Come pensa si evolverà il dibattito, per ora limitato a collettivi, a piccole case editrici e ai social?
Chi lo sa? Probabilmente è destinato a rimanere ancora di nicchia per diverso tempo, a parte queste “uscite pubbliche” non programmate. Per me l’importante sarebbe che tutta la discussione venisse portata avanti con un minimo di cognizione di causa, senza chiusure nette e un po’ reazionarie. Del resto, come ricorda il mio collega Federico Faloppa nel suo ultimo libro #Odio. Manuale di resistenza contro la violenza delle parole (2020, UTET), è sempre molto difficile tenere conto delle sensibilità altrui, che magari non coincidono con le nostre. Davanti a ogni istanza mi chiedo sempre se quella prima reazione istintiva che magari mi porta, come tutti, a sbottare “ma che problemi sono questi?”, non sia forse frutto di una difficoltà a mettersi nei panni di chi magari soffre davvero per quella certa cosa che a me sembra del tutto ininfluente. In questo caso, chi sono io per dire che chi non si riconosce nei generi maschile e femminile sbaglia, o anche definire quale sarebbe per loro il modo giusto di esprimersi? Io intanto osservo e registro.
Poi, magari, a livello concreto non cambierà nulla, nell’italiano. Ma intanto, prendiamo la questione per quello che dice di noi, della nostra società e soprattutto delle persone multiformi e multicolori che la compongono.
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