Chi parte dalla Tunisia lo fa perché non ha altra scelta
Quando si parla di Tunisia si parla giustamente del successo della rivoluzione, ma con questa scusa si ignora la crisi economica e la disoccupazione altissima, in particolare nel sud del paese
in copertina, la polizia usa gas lacrimogeno per far disperdere il sit–in a Tataouine, nel sud del paese,
foto via Twitter
Quando si parla di Tunisia si parla giustamente del successo della rivoluzione, ma con questa scusa si ignora la crisi economica e la disoccupazione altissima, in particolare nel sud del paese
Lavoro, pane, dignità. A 9 anni dalla rivoluzione, le rivendicazioni motore delle rivolte contro il regime di Ben Ali rimangono ancora inascoltate. Dietro la narrazione dell’unica storia di successo delle primavere arabe, in realtà, si nasconde un profondo malessere sociale che rischia di minare la transizione democratica del paese: la crisi politica, la disoccupazione cronica, la marginalizzazione sociale e le disparità regionali.
Di fronte alla mancanza di cambiamento delle condizioni di vita della popolazione, il clima di speranza ed entusiasmo che un tempo riempiva le piazze ha lasciato posto a un ampio sentimento di disillusione e perdita di fiducia nelle istituzioni politiche. Tardano a realizzarsi quelle opportunità di un riscatto sociale che i giovani vedevano nella rivoluzione, e i governi post-rivoluzione — 9 in tutto — hanno fallito, uno dopo l’altro, a implementare politiche in grado di far fronte alla crisi economica e sociale del paese. Come se non bastasse, la pandemia ha contribuito a mettere a nudo la fragilità sia del sistema sanitario che del sistema economico tunisino. Se da una parte le rigide misure di lockdown adottate hanno contenuto con successo la diffusione del virus, dall’altra il paese si ritrova a fare i conti l’elevato costo sociale ed economico del confinamento.
La transizione del paese ha indubbiamente raggiunto significativi traguardi: elezioni libere ed eque, istituzioni politiche più trasparenti, una vibrante società civile, media liberi. Allo stesso tempo il processo di democratizzazione ha aumentato le aspettative dei giovani disoccupati e delle fasce più svantaggiate della popolazione, soprattutto nelle regioni interne e del sud del paese, storicamente marginalizzate e vittime di una iniqua distribuzione di risorse, sia materiali che immateriali, a favore della regione costiera del Sahel. Mohamed-Dhia Hammami, analista politico, individua nelle grandi famiglie tunisine — le élite — uno dei grandi limiti allo sviluppo delle regioni e del paese. “Le élite costiere monopolizzano le risorse e creano barriere d’accesso nelle regioni più ricche.” E continua: “I burocrati di queste élite, alienati, non attuano politiche a beneficio di queste regioni. Seguono puramente gli interessi delle loro regioni di provenienza. Ecco perché le politiche economiche non funzionano.”
Secondo l’istituto nazionale delle statistiche (INS), il tasso di disoccupazione totale ha raggiunto il 15,1%, di cui 28,6% é composto dai cosiddetti “diplomés chomeurs” — i laureati disoccupati. Tra le regioni del sud figurano i tassi di disoccupazione più elevati, che raggiungono quasi il 30%, come nella regione di Tataouine. Ed è stata proprio Tataouine negli ultimi mesi teatro di proteste e repressioni. Il movimento di protesta di Al Kamour dal 2017 richiede la creazione di posti di lavoro nell’industria del petrolio e del gas dell’area e l’investimento di fondi destinata allo sviluppo regionale utilizzando l’occupazione nei giacimenti petroliferi del sud e della regione.
“La rivoluzione è scoppiata perché il contratto sociale implicito era insostenibile da tempo: ovvero, sicurezza del sostentamento in cambio dell’apoliticismo. Oggi le basi di questo contratto non esistono più ed è molto difficile impostarne uno nuovo. Le persone sono più arrabbiate e più deluse perché la situazione economica è peggiore,” spiega Yasmine Wardi Akrimi, North Africa Analyst presso il Brussels International Center. “Qualcosa che spesso dimentichiamo è anche che i giovani tunisini non sanno cosa sia una dittatura. Quindi è più difficile per loro pensare in termini di ‘tutto tranne un ritorno alla dittatura,’ perché è un concetto teorico. Io avevo 16 anni nel 2011, ma vengo da una famiglia politicizzata, quindi è un po’ diverso.“
Lo scorso 25 luglio, a seguito di un’indagine parlamentare per conflitti di interesse, il Primo Ministro Elyes Fakhfakh ha presentato le proprie dimissioni su richiesta del Presidente Kais Said, quasi contemporaneamente alla mozione di censura presentata nei confronti del premier dai partiti Ennahda, Al Karama e Qalb Tounes. L’ennesima crisi politica e l’ennesimo governo da formare.
Per molti l’unica scelta è andarsene
“Mi sento morto. Il mio paese non mi rispetta, non ho più alcuna speranza. L’unica speranza che ho è partire.” Intervistato nel centro di Tunisi da un’emittente televisiva, così racconta con spaventosa fermezza un giovane che si appresta la notte stessa ad attraversare il mare con un gruppo di amici. Secondo i dati del Forum des Droits Économiques et Sociaux (FTDES), durante il mese di luglio 3679 migranti sono sbarcati sulle coste italiane, mentre se ne contano 5243 dall’inizio dell’anno. Solo nell’ultima settimana, tre imbarcazioni sono affondate al largo delle coste tunisine e la guardia costiera è attualmente alla ricerca di 24 dispersi.
Allarmata dal crescente flusso di sbarchi, la ministra dell’Interno Lamorgese è corsa a Tunisi per ridiscutere la cooperazione tra Italia e Tunisia in materia di migrazione e per offrire pieno sostegno al governo tunisino — ovvero, per intensificare le attività di sorveglianza sulle imbarcazioni dei trafficanti in partenza dalla costa africana. Lamorgese ha ribadito che le misure relative alle procedure sullo status giuridico volute dalla ministra Bellanova riguardano solo i migranti già presenti sul territorio. D’altra parte, il presidente tunisino ha sottolineato la necessità di unire gli sforzi per trovare una soluzione adeguata per affrontare la migrazione irregolare, rilevando che le soluzioni di sicurezza non sono sufficienti. Citato in un comunicato stampa della Presidenza della Repubblica, Kais Saied ha infatti osservato che “la migrazione irregolare è soprattutto un problema umanitario.” L’esigenza dei paesi europei è chiara: sorvegliare. Ma quanto è efficace l’approccio securitario?
Il deputato tunisino Majdi Karbai, eletto nel collegio elettorale italiano con il partito Courant démocrate, sostiene che non sia più possibile continuare con queste politiche, denunciando la grave lacuna in Tunisia in materia di migrazione. “Bisogna ripensare il modello di politiche implementate tra i due paesi. Continuare a rinforzare solo il controllo delle frontiere e i sistemi di sicurezza non porta a un effettivo cambiamento nei flussi migratori.” Il problema è la mancanza di un unico organismo competente che si occupi di migrazione. “Le istituzioni di riferimento sono il ministero degli interni, il ministero degli affari sociali e il ministero degli esteri, ma lavorano senza alcuna coordinazione né strategia. È impossibile gestire la questione in questo modo. C’è l’esigenza di creare un’istituzione che monitori e capisca realmente il fenomeno, raccolga dati e interloquisca alla pari con le istituzioni europee.”
I fattori che spingono le persone a intraprendere un viaggio pericolosissimo si sono moltiplicati a seguito della pandemia, secondo Romdhane Ben Amor, responsabile comunicazione presso il Forum des Droits Economiques et Sociaux (FTDES). È interessante notare il mutamento del fenomeno: non solo giovani uomini, ma sempre più donne e famiglie decidono di intraprendere il progetto migratorio alla ricerca di una vita migliore in Europa. “Oltre ai fattori socio-economici, la scintilla che ha scatenato quest’ultima ondata migratoria è da ricercarsi nella crisi politica che si protrae da febbraio. Un altro elemento è la rete di trafficanti dietro al quale si cela un’intera economia sotterranea — dalla logistica alla concezione delle imbarcazioni — che sta iniziando ad emergere nelle regioni, in particolare nelle regioni costiere.”
Chi decide di migrare oggi ha maggiori informazioni riguardo ai diritti che tutelano i migranti. “La famiglia era il primo ostacolo per il progetto migratorio dei giovani. Ma questa resistenza comincia a diminuire in quanto i genitori, esasperati dalla loro condizione, si rendono conto che il percorso educativo dei loro figli non garantisce più la riuscita della famiglia e la possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Le famiglie cominciano allora a investire in questo progetto, considerando la garanzia di non rimpatrio dei figli minori, o l’assistenza che i familiari con problemi sanitari e handicap possono ricevere.”
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Grazie al sostegno dei paesi europei, il lavoro delle guardie costiere nell’impedire la riuscita di questi viaggi è diventato sempre più efficace. Ma il Forum ha osservato come questo rafforzamento dei sistemi di controllo abbia portato i passeurs — i trafficanti — ad affinare ulteriormente le proprie strategie, utilizzando imbarcazioni in plexiglas, o organizzando molteplici partenze contemporanee da vari di punti della costa tunisina per sviare la guardia costiera.
C’è, anche, una cattiva comprensione da parte dell’Italia del contesto tunisino, affrontato in modo superficiale dalla politica e dai media. Secondo Lamorgese, ad esempio, i tunisini hanno un’informazione errata sulla regolarizzazione dei migranti in Italia. In quest’ottica, la sanatoria di Bellanova costituirebbe un pull factor. Eppure Romdhane smentisce questa visione di causa-effetto, non riscontrando in queste informazioni un fattore determinante per la partenza. I social media, le immagini dei famigliari e vicini arrivati in Europa, invece sì, giocano un ruolo importante nel costruire un immaginario che possa far sperare in una vita diversa, che sempre più tunisini si trovano a cercare oltremare, nei pochi spiragli di accoglienza lasciati aperti da un’Europa sempre più chiusa e repressiva.
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