Che cosa significa l’uscita della Polonia dalla Convenzione contro la violenza sulle donne
Secondo il ministro Ziobro, la Convenzione di Istanbul è dannosa perché richiede alle scuole di insegnare “l’ideologia gender,” contraria alle tradizioni nazionali
in copertina, foto via Twitter
Secondo il ministro Ziobro, la Convenzione di Istanbul è dannosa perché richiede alle scuole di insegnare “l’ideologia gender,” contraria alle tradizioni nazionali
Il ministro della Giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, ha annunciato che la Polonia inizierà il processo di uscita dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa. Documento fondamentale per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, era stato ratificato dal governo di Varsavia nel 2015, quando la Polonia era ancora guidata dal partito liberale Piattaforma Civica (PO).
La Convenzione di Istanbul, o meglio ancora, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, è il trattato più completo che esista per il contrasto della violenza contro le donne. Include la violenza domestica, lo stupro, l’aggressione sessuale, le mutilazioni genitali femminili, la cosiddetta “violenza basata sull’onore” e il matrimonio forzato. La Convenzione è basata sul presupposto che le donne siano vittime di violenza in quanto donne, e obbliga gli Stati a prendere misure necessarie per proteggere le vittime e assicurare i colpevoli alla giustizia.
L’attuale partito conservatore al potere Diritto e Giustizia (PiS), forte dei successi delle ultime due elezioni politiche e di quelle presidenziali, si è sempre opposto alla ratifica del trattato e non ha mai nascosto l’intenzione di uscirne. Già nel 2014 Ziobro aveva definito la Convenzione “un’invenzione femminista che ha lo scopo di giustificare l’ideologia gay”, sottolineando come non ci fosse bisogno di una convenzione a difesa delle donne, quando si può semplicemente consultare un Vangelo o la legge.
Anche il Presidente Andrzej Duda, rieletto poche settimane fa, nel 2015 aveva dichiarato di essere contrario alle ratifica in quanto le misure per prevenire la violenza sulle donne sarebbero già parte del codice penale. Secondo Duda e gran parte del partito PiS, la Convenzione conterrebbe “concetti contrari alla tradizione e alla cultura polacca.” L’anno dopo, anche l’ex ministra della famiglia e delle politiche sociali Elżbieta Rafalska aveva espresso la sua contrarietà alle disposizioni legate alle visioni culturali di genere, considerando quest’ultimo “una categoria biologica e non culturale”.
Nel corso di una conferenza stampa, Ziobro ha spiegato come il suo ministero abbia fatto molto negli ultimi anni per dimostrare che la lotta alla violenza contro le donne è una delle priorità per il governo. A testimoniare l’impegno profuso, il ministro della Giustizia ha citato una recente legge che allontanerà immediatamente i colpevoli di violenza domestica dalle loro vittime. “Oggi posso affermare che la legge polacca è un modello per tanti altri paesi, quando si parla di standard di protezione delle donne”, ha detto Ziobro. Non è della stessa opinione Joanna Gzyra, portavoce del Centro per i Diritti delle donne (CPK). La Gzyra sostiene che la Convenzione ha un approccio diverso e che questa tratti la violenza di genere come una questione strutturale, condizionata da pregiudizi e stereotipi culturali. Gzyra spiega che “questo approccio è fondamentalmente diverso da quello che la legge polacca presenta, viste le lacune nella sua protezione delle donne che subiscono violenza”. Inoltre, in Polonia mancherebbero strutture specializzate nel supporto alle vittime di violenza, nonché procedure di valutazione del rischio che consentirebbero “un’efficace protezione delle donne contro l’escalation di violenza e omicidio”.
Intanto dalle parole si è passati rapidamente ai fatti, come piace al PiS. Lunedì il ministro della giustizia ha inviato una richiesta al ministero della famiglia per portare la Polonia fuori dalla trattato. Il dicastero in questione è guidato da Marlena Maląg, la quale ha recentemente bollato la Convenzione di Istanbul come “spazzatura di sinistra”, come riferisce l’emittente radiofonica Radio Zet. Gli ostacoli a questo punto sono, almeno formalmente, pochi. Solamente il Premier Morawiecki ha espresso qualche dubbio e ha chiesto di indirizzare al Tribunale costituzionale la richiesta di valutare la compatibilità della Convenzione di Istanbul con la Costituzione polacca. Morawiecki è consapevole che l’uscita dal trattato potrebbe avere conseguenze economiche e politiche pesanti per la Polonia, soprattutto livello europeo.
Il governo ribadisce comunque che, se da un lato la violenza domestica dovrebbe essere prevenuta, dall’altro la Convenzione di Istanbul sarebbe solo un tentativo di promuovere l’ideologia di genere e i diritti LGBT perché definisce il genere come un “costrutto sociale,” piuttosto che biologico. Ancora una volta, vengono inoltre tirati in ballo i minori: l’obiettivo dichiarato dell’esecutivo è quello di proteggere i bambini dall’ideologia del cosiddetto “genere socio-culturale,” contrario alla biologia. Il governo negli ultimi anni ha osteggiato i diritti LGBT e li ha descritti come parte di un’ideologia nemica, pericolosa per la Polonia e in grado di corrompere la moralità dei bambini. Un terzo del territorio, circa 100 comuni del sud-est a guida PiS, negli ultimi due anni si è autoproclamato “zona libera dagli LGBT”.
In risposta alle critiche ricevute, il Consiglio d’Europa aveva segnalato già nel 2018 alcuni tentativi di travisare i contenuti della Convenzione al fine di screditarne gli obiettivi principali, dichiarando che il trattato non cerca in alcun modo di regolare o alterare la vita e le strutture familiari. Le argomentazioni del governo polacco sono state respinte anche dalle principali organizzazioni per i diritti delle donne, che sostengono che gli sforzi per rinunciare alla Convenzione sono in realtà un mezzo per indebolire le protezioni contro la violenza domestica. Molti polacchi non hanno dimenticato quanto successo lo scorso anno, quando il governo aveva presentato un progetto di legge per applicare il termine “violenza domestica” solo quando il coniuge è vittima di violenza in più di un’occasione. Solo una tempesta di critiche aveva bloccato l’iter legislativo.
Venerdì scorso, intanto, c’è stata la reazione della società civile. Migliaia di manifestanti si sono riuniti a Varsavia per protestare davanti al ministero della famiglia e agli uffici di Ordo Iuris, fondazione ultraconservatrice che ha condotto una campagna contro la Convenzione di Istanbul e a favore di una Convenzione internazionale per i diritti della famiglia. Ordo Iuris, inoltre, è promotrice della proposta di legge “Stop aborto” e contraria all’insegnamento dell’educazione sessuale.
Al grido di “No alla legalizzazione della violenza domestica” e “combattete il virus, non le donne”, migliaia di polacche e polacchi hanno bloccato il centro della capitale. A guidare le proteste c’erano ancora una volta la scrittrice Klementyna Suchanow e Marta Lempart, leader dello Sciopero nazionale delle donne (OSK), già protagonista della lotta a favore dell’aborto. Presenti inoltre i movimenti LGBT, i Verdi e il partito di sinistra Insieme (Razem). Alcune manifestanti indossavano abiti da ancella, prendendo spunto dalla serie tv e dal romanzo distopico di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella. I dimostranti hanno chiesto al governo di rispettare la Convenzione e a Maląg, la ministra della famiglia, di dimettersi. Manifestazioni simili hanno avuto luogo a Cracovia, Danzica e in tante altre città.
Quello della Polonia non è comunque l’unico caso. Alcuni aspetti della Convenzione di Istanbul hanno suscitato critiche simili in altre Paesi dell’Europa centrale e orientale. Tra i paesi che non hanno ancora ratificato il trattato ci sono la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Ucraina, nonché il Regno Unito. La scelta di uscire dalla Convenzione di Istanbul ha inoltre una strana similitudine con quanto avvenuto in Russia nel 2017, dove il parlamento ha scelto di implementare emendamenti legislativi per depenalizzare il reato di violenza domestica e diminuirne le sanzioni.
Il Parlamento europeo ha ripetutamente preso una ferma posizione sulla questione della violenza contro le donne, e ha chiesto più volte l’adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul, nonché la sua ratifica da parte dei singoli Stati membri. Uscire da questo trattato, oltre a rappresentare un gesto di sfida nei confronti dell’Unione Europea, significherebbe andarsene dal primo accordo legalmente vincolante sul tema della violenza di genere. Il rischio è quello di un effetto domino, considerando che a maggio anche il Parlamento ungherese aveva scelto di non ratificare la Convenzione di Istanbul. In quel caso si è parlato del tentativo di promuovere un’ideologia gender “contraria ai valori tradizionali, volta a promuovere l’immigrazione e a minacciare la stabilità dell’Ungheria”.
Timida è stata però la reazione dell’Ue, forse ancora distratta dall’accordo sul recovery fund e poco propensa a creare tensioni politiche con gli stati membri, soprattutto quando si parla di diritti. La Commissione europea ha dichiarato di “provare rammarico che una questione di tale importanza sia stata distorta da argomentazioni fuorvianti in alcuni Stati membri,” e ha aggiunto che continuerà a impegnarsi per finalizzare l’adesione dell’UE alla Convenzione, firmata nel 2017 ma mai ratificata. Più incisiva invece Marija Pejčinović Burić, segretaria generale del Consiglio d’Europa, che non ha esitato a condannare la leadership autoritaria polacca e gli attacchi continui ai diritti delle donne e delle persone LGBT. “Lasciare la Convenzione di Istanbul sarebbe altamente deplorevole e un passo indietro nella protezione delle donne dalla violenza in Europa,” ha twittato Burić domenica scorsa. L’Ue ha intanto preso una decisione che farà rumore: sei cittadine polacche non riceveranno fondi europei a causa del loro atteggiamento nei confronti della comunità LGBT.
Nel frattempo, l’OMS denuncia che a livello mondiale la violenza contro le donne è aumentata del 60% a seguito delle misure anti-Covid. Un segnale che dimostra come, in un momento di emergenza, non si dovrebbe lasciare indietro nessuno. Tantomeno in Polonia, dove la violenza sulle donne è ancora un tabù e buona parte della società tende a considerare la violenza domestica un affare di famiglia.
Dopo aver trascinato la magistratura nell’orbita dell’esecutivo, minacciato più volte l’inasprimento della legge sull’aborto, cercato di limitare l’educazione sessuale nelle scuole e, di fatto, occupato la tv pubblica, la deriva semi-autoritaria della Polonia conservatrice sembra ancora una volta inarrestabile. Le prossime settimane saranno decisive per comprendere cosa si nasconde dietro quest’ennesima forzatura liberticida e come reagirà l’Unione europea, sempre più vittima di ricatti e compromessi dannosi con governi poco democratici.