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in copertina, il memoriale di Potočari a Srebrenica

I fatti di Srebrenica sono ancora oggetto di revisionismo, soprattutto da parte dei nazionalisti serbi. Come conclude lo scrittore Aleksandar Hemon, bosniaco naturalizzato americano: “Un negazionista è un potenziale apologista del prossimo genocidio.”

“Eccoci, in questo 11 luglio del 1995 nella Srebrenica serba. Alla vigilia di un giorno di festa serbo, offriamo al popolo serbo questo città. E finalmente è arrivato il momento, dopo la rivolta contro di loro, di vendicarci dei turchi su questo territorio” sono le parole compiaciute pronunciate in quei giorni ai giornalisti connazionali dal generale Ratko Mladić. Il capo dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina si riferiva all’occupazione militare dell’enclave di Srebrenica, abitata dai bosniaci musulmani identificati come “turchi”, che si supponeva difesa dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite — UNPROFOR, ovvero i noti caschi blu delle Forze di pace. Ciò che però non è mai stato menzionato di fronte ai microfoni e alle telecamere era il piano, lasciato nelle mani del colonnello Ljubiša Beara, di mettere in atto il più grande genocidio etnico su territorio europeo dopo quello degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Il massacro di Srebrenica, iniziato l’11 luglio 1995 e conclusosi sei giorni dopo, contò oltre 8 mila vittime, tutti civili, uomini, tendenzialmente adulti e di religione musulmana. È stato l’atto finale di pulizia etnica programmata di un’offensiva militare iniziata nel 1992. A ciò vanno aggiunti gli stupri di massa operati dalle milizie serbe e l’emorragia di profughi dall’area che ha portato al totale svuotamento della zona, in precedenza occupata dai bosniaci musulmani, e ora invece appartenente alla Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, entità territoriale rinegoziata durante i trattati di Dayton. Nonostante il tempo trascorso, però, la distanza non è ancora sufficiente per circoscrivere l’evento in una cornice storica più chiara, facendo luce sulle tante ombre rimaste, tra cui la responsabilità dell’ONU e i sentimenti anti-islamici delle truppe UNPROFOR, rimanendo un evento lontano e spesso sconosciuto a causa della scarsa rilevanza nei media italiani e non solo. Nella migliore delle ipotesi, i conflitti che portarono alla disgregazione della Jugoslavia sono stati rappresentati in maniera spesso approssimativa e semplicistica, quando addirittura non ignorati. La colpa non è solo dei media, ma anche di una continuo tentativo di riscrittura della storia a scapito delle stesse vittime. 

11 luglio 2005, sepoltura di 610 vittime

Prova a fare un’operazione di “giustizia narrativa” il romanzo-documentario Metodo Srebrenica (Bottega Errante Edizioni) dello scrittore croato Ivica Đikić, che riporta con estrema perizia quanto accaduto in quei giorni terribili nei territori di Srebrenica, Bratunac e Kravica, ovvero quei luoghi della valle della Drina tanto ambiti dalle mire di conquista serbe e occupati da una maggioranza bosgnacca musulmana. Đikić si concentra specialmente sulla figura del colonnello Ljubiša Beara dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA), il braccio armato della Repubblica Serba. Questa figura, raramente ricordata nei report sulla guerra in Bosnia Erzegovina, è l’artefice dell’intera operazione Srebrenica. L’autore del libro, provando a ridurre ai minimi termini ciò che è avvenuto, prova a risalire “fino alle motivazioni di coloro che avevano ordinato ed eseguito le uccisioni”, e con ciò a capire almeno in parte  che cosa ha portato a una simile operazione. Quello che non fa, però, è indagare sulle responsabilità esterne, quelle delle forze di pace dell’ONU di stanza a Srebrenica da oltre 2 anni e che non hanno agito in alcun modo per fermare lo sterminio che avveniva attorno a loro. 

11 luglio 2007, sepoltura di 465 vittime

I fatti sono ancora comunque oggetto di revisionismo, soprattutto da parte dei nazionalisti serbi che ridimensionano il numero delle vittime e celebrano i leader di guerra, le cui posizioni vengono perfettamente rappresentato dallo scrittore austriaco Peter Handke, premiato con il Nobel per la letteratura nel 2019, che avvalora il negazionismo. Handke, all’interno della sua vasta produzione letteraria, è autore del controverso saggio Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia (Einaudi editore, 1996) in cui espone, nella forma di diario di viaggio, tutte le sue tesi a sostegno della Serbia di Milošević. Nel libro imbastisce un racconto fazioso, disinteressato alla cultura locale e alle vittime coinvolte nelle guerre in corso, il cui unico obiettivo sembra essere più che altro dimostrare di essere stato in quei luoghi, tra cui Srebrenica. Esiste anche una fotografia a testimonianza, in cui Handke viene ritratto davanti al cartello di ingresso nella città di Srebrenica, esponendosi all’obiettivo come un turista davanti a un monumento qualsiasi. Non è forse un caso se l’associazione nazionalista “Istočna alternativa” ha proposto di erigere un busto di Handke proprio a Srebrenica, per onorare i suoi “meriti nella ricerca di giustizia e verità”, e nello specifico per aver “contestato il verdetto dell’Aja e negato il genocidio di Srebrenica”. Ma come molti sopravvissuti testimoniano, i continui danni del genocidio non si limitano ai morti, ma anche al trauma della negazione che viene perpetrato e di cui il linguaggio è un aspetto fondamentale. Come conclude lo scrittore Aleksandar Hemon, bosniaco naturalizzato americano: “Un negazionista è un potenziale apologista del prossimo genocidio.” 

11 luglio 2010, sepoltura di 775 vittime

Il Tribunale Penale dell’Aja per i crimini dell’ex Jugoslavia (ICTY) ha chiuso i suoi battenti il 31 dicembre del 2017, dopo aver dichiarato lo status di genocidio per Srebrenica e condannato i maggiori responsabili serbi delle guerre in Bosnia, tra cui il leader serbo Radovan Karadžic, il generale Mladic e il presidente della Serbia Slobodan Milošević. Tantissimi processi, però, sono tuttora in corso di svolgimento presso il Meccanismo residuale per i Tribunali Penali Internazionali (MTPI) per poter risarcire le vittime e fornire protezione ai testimoni. Anche se, attualmente, il primo obiettivo ora sarebbe di facilitare quel processo di riconciliazione che ancora è molto lontano dall’essere messo in pratica nella vita quotidiana di serbi e bosgnacchi: i processi di giustizia transizionale a livello regionale sono stati messi in secondo piano nelle strategie della comunità internazionale, che si è appunto focalizzata sull’istituzione legale dell’ICTY. Per sopperire a questa mancanza, va lodato l’ampio lavoro fatto dal progetto giornalistico Balkan Transitional Justice, supportato anche dalla Commissione Europea, che mira a fornire accesso libero a informazioni imparziali e analisi di giustizia transizionale per costituire le basi di una democrazia nella regione dell’ex Jugoslavia.

La gestione politica della Bosnia Erzegovina rimane tutt’oggi molto complessa.

Come accennato, le zone attorno a Srebrenica ora fanno parte della Repubblica Serba, entità federale che compone la Bosnia Erzegovina insieme alla Federazione, a seguito della spartizione avvenuta con i trattati di Dayton nel dicembre del 1995. Quei trattati, che avevano come obiettivo la risoluzione politica del conflitto etnico bosniaco, non hanno fatto altro che polarizzare le differenze culturali esistenti all’interno di esso: oggi infatti il sentimento di appartenenza a una o l’altra etnia è fonte di conflitto e ostacolo alla convivenza pacifica non solo tra serbi e bosgnacchi, ma anche con la minoranza croata, presente soprattutto nella zona erzegovese. Non mancano però degli splendidi esempi di ricostruzione e pacificazione civile. La Cooperativa agricola Insieme, fondata da Rada Žarković e Skender Hot nel territorio di Bratunac, unisce le donne di diverse etnie sopravvissute al genocidio, per la produzione di marmellate e succhi di frutti di bosco, distribuiti anche in Italia. Mentre Irvin Mujcic, scappato da Srebrenica a 5 anni ed ex rifugiato a Cevo, in provincia di Brescia, è tornato proprio lì, nella valle della Drina, per fondare City of Hope, una casa della natura dove fornire un rifugio per tutti i turisti che vogliono visitare i meravigliosi paesaggi bosniaci.  “Noi tutti siamo dei piccoli Hitler, Mussolini e Milosevic”, ha dichiarato lo scorso gennaio mentre raccontava la sua testimonianza al Mandela Forum di Firenze di fronte agli studenti toscani.

Per approfondire


Photo credit
In copertina: foto di Jelle Visser
Nell’articolo: foto di Emir ArvenAlmir DzanovicJuniki San