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Mentre i giornali parlano di untori e di scontri inter-etnici tra italiani e bulgari, i due focolai di Mondragone e Bologna smentiscono tre mesi di retorica sui rischi della movida: i luoghi più pericolosi sono i posti di lavoro in cui lo sfruttamento è generalizzato

Nel pomeriggio di ieri ci sono state tensioni a Mondragone, in provincia di Caserta, per via della mini “zona rossa” applicata lunedì attorno ai palazzoni-dormitorio della ex Cirio, abitati soprattutto da braccianti stagionali provenienti dalla Bulgaria. Alcuni di loro hanno protestato in mattinata per chiedere di poter andare a lavorare, scendendo in strada nonostante il divieto. Sul posto sono intervenuti la polizia e l’esercito, ma anche gruppi di cittadini italiani che hanno a loro volta protestato contro la presenza degli “stranieri,” al grido di “fuori! fuori!”

I media hanno dato molto risalto alla risposta di alcuni dei residenti bulgari alle proteste xenofobe: su molti giornali campeggia la foto dell’uomo che lancia una sedia dal balcone, ma molta meno attenzione viene dedicata alle violenze dei cittadini italiani, che hanno lanciato pietre contro le finestre e sfondato i finestrini di alcune auto. In un video pubblicato dal Corriere della Sera si vedono gruppi di persone che cercano di penetrare in uno degli edifici prendendo a calci il portone, spaccano a bastonate i finestrini e rimuovono le targhe dalle auto dei residenti — costretti ad assistere dalle finestre — tra gli applausi, mentre la polizia e i carabinieri presenti sul posto non fanno sostanzialmente nulla per fermarli.

Queste immagini riportano alla memoria le “rivolte” orchestrate dall’estrema destra contro i centri d’accoglienza a Tor Sapienza nel 2014, ma qualcuno ieri si è spinto a ricordare un episodio ancora più estremo: la strage di Pescopagno, che nel 1990 costò la morte a 6 cittadini stranieri per la “pulizia etnica” ordinata dal clan La Torre, attivo proprio tra Mondragone e Castel Volturno. Per capire che aria tira, il Mattino titola “titola “incubo pulizia etnica” un articolo in cui riporta alcune delle dichiarazioni raccapriccianti dei manifestanti, che ieri sono anche entrati negli uffici del comune e hanno bloccato per alcune ore la via Domiziana. “I bulgari si sentono i padroni della città, stiamo subendo da dieci anni: dovete reagire o lo faremo noi.”

Tutto è cominciato lunedì, quando attorno all’area dei palazzi ex Cirio è stato disposto un cordone sanitario in seguito all’individuazione di alcuni casi di positività al virus tra gli appartenenti alla comunità bulgara, a partire da una donna incinta che ha partorito all’ospedale di Sessa Aurunca. A tutti gli abitanti è stato imposto l’obbligo di isolamento domiciliare, senza eccezioni per lo svolgimento dell’attività lavorativa, mentre l’Asl di Caserta ha programmato uno screening sierologico per tutti i residenti (circa 700 persone). Il numero dei contagi è salito ieri a 49. Tra i nuovi positivi — tutti, a quanto pare, asintomatici — non risultano persone “scomparse,” ma il monitoraggio è complicato dal fatto che molti degli abitanti non hanno un regolare contratto d’affitto e non sono quindi censiti. Nei giorni scorsi anche il governatore De Luca aveva parlato di alcuni braccianti che avevano eluso il divieto di spostamento per andare a lavorare nella Piana del Sele. I positivi, per evitare la diffusione del virus, sono stati trasferiti al Covid Center di Maddaloni.

Le autorità nazionali e regionali stanno affrontando la situazione soltanto come un problema di “ordine pubblico”: De Luca ha chiesto alla ministra Lamorgese l’invio di un centinaio di militari, ottenendone circa la metà, mentre il sindaco Virgilio Pacifico ha parlato di un “inaccettabile atto di insubordinazione.” Per De Luca “ora devono stare tutti in casa, si devono rispettare le regole: per 15 giorni nessuno deve entrare o uscire da quei palazzi.” Ma la tensione tra italiani e bulgari a Mondragone ha radici lontane, e non se ne può parlare senza citare le condizioni di vita e di lavoro a cui sono costretti i braccianti stagionali. Da anni intere famiglie arrivano dalla Bulgaria per essere sfruttate da aziende agricole italiane che non forniscono né alloggi né trasporti, costringendo i lavoratori a pagare un affitto in appartamenti fatiscenti e sovraffollati all’interno dei palazzoni.

Basta fare una breve ricerca per scoprire casi di caporalato e sfruttamento emersi negli anni scorsi: nel novembre 2018, per esempio, un’indagine della procura di Santa Maria Capua Vetere portò all’arresto di alcuni caporali che avevano instaurato “un vero e proprio rapporto di durevole e fidelizzata collaborazione” con le aziende agricole della zona, fornendo manodopera sottopagata e sfruttata in “condizioni di lavoro degradanti.” Tra gli indagati, anche diversi committenti e titolari delle aziende agricole, che avrebbero sfruttato il sistema illegale “per abbattere drasticamente i costi della raccolta.” Un reportage di Dire, dello stesso anno, descrive la giornata di lavoro dei braccianti, che per 7 ore al giorno guadagnano, quando va bene, una trentina di euro. Paghe da fame, ma comunque superiori anche di 6-7 volte rispetto al salario che percepirebbero in Bulgaria.

La protesta di questi lavoratori — che si sono trovati bloccati nella zona rossa senza precise informazioni, senza assistenza e senza la possibilità di andare a lavorare — è più che comprensibile, e non dovrebbe essere inquadrata soltanto nella cornice di uno “scontro inter-etnico.”

Il trattamento riservato all’altro grande focolaio che sta preoccupando l’Italia in queste ore — quello alla BRT di Bologna — è molto diverso, anche se c’è un elemento comune che li unisce: il lavoro. Ma qui c’è una grande azienda della logistica e, nonostante le testimonianze sul mancato rispetto delle misure di sicurezza e sui ritardi delle segnalazioni ai medici competenti, i datori di lavoro non vengono definiti “untori” come i braccianti bulgari di Mondragone.

Al momento i casi positivi tra i magazzinieri di BRT sono 64, ma risultano casi di contagio anche in altre aziende della logistica della zona (DHL, TNT, Pelletways). 9 di loro sono sintomatici, 2 sono stati ricoverati. Secondo l’Ausl di Bologna il focolaio è sotto controllo. 370 persone sono già state sottoposte al tampone, mentre 130 persone sono in isolamento domestico. Il magazzino in cui si sono sviluppati i primi contagi è stato chiuso, ma l’azienda continua ad essere aperta regolarmente.

Secondo la fondazione Gimbe, che ieri ha diffuso il proprio report settimanale, i nuovi focolai dimostrano che il virus è ancora in circolazione e quindi è indispensabile “continuare con una stretta sorveglianza epidemiologica,” diffidando dal “senso di falsa sicurezza che traspare da improvvide dichiarazioni prive di basi scientifiche.” La costante riduzione dei nuovi casi, avverte Gimbe, è influenzata dal netto calo dei tamponi diagnostici: 26.876 in meno rispetto alla settimana precedente.

Il virologo Fabrizio Pregliasco, intervistato dall’HuffPost, sottolinea che “i luoghi della logistica fanno ricordare che non è un caso se tutto è iniziato a Codogno, Lodi e nel Piacentino. La logistica resta un setting altamente a rischio per l’innescarsi di nuovi focolai: sono luoghi dove c’è un interscambio di tantissime persone e dove è facile che si creino affollamenti.” I due focolai di Bologna e di Mondragone, così come quello che si è sviluppato nel mattatoio Tönnies in Germania, smentiscono mesi di retorica incessante sul rischio della “movida” e dei runner, evidenziando chiaramente — come i sindacati e i lavoratori hanno sempre denunciato — che i luoghi più a rischio per lo sviluppo dei contagi sono sempre i posti di lavoro, specialmente quelli in cui è difficile o impossibile far osservare le misure di distanziamento sociale. E, quindi, quelli a più alto tasso di sfruttamento, con paghe basse e manodopera quasi interamente straniera: logistica e bracciantato agricolo.

In copertina: i palazzi ex Cirio di Mondragone, via Twitter

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