Era davvero necessario fare gli Stati generali?

Il ciclo di incontri organizzato dal governo a Villa Pamphilj si è chiuso con una serie di annunci piuttosto vaghi e già sentiti: il sospetto è che Conte stia cercando soprattutto di prendere tempo. Ma per fare cosa?

Era davvero necessario fare gli Stati generali?

Il ciclo di incontri organizzato dal governo a Villa Pamphilj si è chiuso con una serie di annunci piuttosto vaghi e già sentiti: il sospetto è che Conte stia cercando soprattutto di prendere tempo. Ma per fare cosa?

Ieri si è svolta la giornata conclusiva degli Stati generali a Villa Pamphilj, la “dieci giorni” di incontri e discussioni organizzata dal presidente del Consiglio Conte sotto il titolo di “Progettiamo il rilancio.” È stata la giornata dedicata agli incontri con le famose “menti brillanti” che Conte aveva annunciato lanciando l’evento. C’erano Alessandro Baricco, Elisa, Giuseppe Tornatore, il Presidente della Fondazione Italiana Sommelier ? e l’archistar Massimiliano Fuksas, che poi si è vantato di aver proposto un “piano del secolo” per la casa.

Naturalmente è stato Baricco a fornire al premier la citazione con cui iniziare la conferenza stampa conclusiva, che si è tenuta ieri sera verso le 8. La retorica nebulosa per cui è famoso lo scrittore torinese, infatti, è perfetta per riassumere dieci giorni di incontri che, secondo Conte, sono stati “all’insegna della concretezza,” ma da cui emergono una serie di vaghi annunci che di concreto hanno ben poco: dobbiamo “reinventare il paese” — ha detto Conte — lavorando su tre direttrici: “modernizzare,” “lavorare per una robusta transizione energetica” e “rendere l’Italia più inclusiva.” Parole d’ordine su cui è impossibile non essere d’accordo, ma si tratta appunto di parole d’ordine: generici obiettivi di principio che poi andrebbero misurati sul come. E anche chiariti meglio nella sostanza: che cosa significa modernizzare il paese? L’inclusione a chi è rivolta, e come si realizza?

Durante la conferenza stampa, Conte ha fornito qualche dettaglio in più elencando una serie di provvedimenti che, in molti casi, sembrano usciti dal manifesto di un qualsiasi generico partito riformista degli ultimi vent’anni. In sintesi:

  • Favorire i pagamenti digitali;
  • Realizzare una rete unica di fibra ottica;
  • Rivedere l’abuso d’ufficio — una proposta passata in sordina di cui in realtà si era discusso già a fine maggio, caldeggiata fortemente dalle organizzazioni imprenditoriali (che vedono nell’abuso d’ufficio un reato “vago” che ostacola i rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni) e ovviamente dalla destra;
  • Impresa 4.0 plus, un nuovo piano di incentivi per le aziende;
  • Creare “i distretti dell’economia circolare”;
  • Ridurre del cuneo fiscale (è la prima volta che ne sentiamo parlare, una proposta di originalità dirompente);
  • Contrasto alla povertà educativa;
  • Voucher di 500 euro per tre anni per le donne manager;
  • Investire “molto” per il diritto allo studio (e qui finisce il discorso sull’inclusione).

Data la poca notiziabilità di questi annunci, sorprende poco che i giornali si siano gettati soprattutto sulla proposta potenzialmente più incisiva: quella di un taglio o di una “rimodulazione” dell’Iva, ventilata da Conte prima su Facebook, poi rispondendo alla domanda di una cronista in conferenza stampa. Il premier stesso però ha frenato, chiarendo che non è stata presa ancora nessuna decisione, e si tratta soltanto di “un’ipotesi.”

Era necessario organizzare dieci giorni di dibattiti e discussioni per ottenere questo risultato?

Ci si potrebbe chiedere, legittimamente, se fosse veramente necessario organizzare in pompa magna dieci giorni di incontri con centinaia di sigle, associazioni, sindacati e e portatori d’interesse, per sentirsi dire le stesse proposte vaghe che si ripetono da decenni (come “dobbiamo semplificare la pubblica amministrazione,” proposta jolly di qualsiasi associazione di categoria) e poi produrre proposte altrettanto vaghe e ritrite. La volontà di ascolto e di confronto con le parti sociali è lodevole, ma non bastava farsi inviare via email qualche comunicato stampa e risolverla in due giorni?

Evidentemente no, e a quanto pare non è nemmeno sufficiente: Conte ha spiegato infatti che, prima di stendere la versione definitiva del “Piano di rilancio” — che sarà presentato solo a settembre — ci sarà un’altra settimana di confronto con i ministri e con le opposizioni, anche se il centrodestra non ha intenzione di presentarsi in audizioni separate. Bisognerà poi trovare le risorse per finanziare questi provvedimenti, e per questo Conte ha già anticipato che si valuterà la necessità di un nuovo scostamento di bilancio.

Sembra quindi che il governo sia intrappolato in una specie di loop infinito: una task force speciale — quella degli “esperti in materia economico-sociale” guidata da Vittorio Colao — lavora settimane per produrre un piano complessivo per il rilancio economico. Un piano già di per sé vago e deludente, oltre che improntato alle stesse ricette neoliberiste riproposte da trent’anni, ma comunque già qualcosa. Si scopre però che questo piano è soltanto il punto di partenza di una kermesse di 10 giorni in cui il governo dovrebbe raccogliere dalle parti sociali tutte le proposte necessarie per stilare il vero piano di rilancio. Allora ci siamo? No, perché questa kermesse a sua volta è soltanto il punto di partenza di un nuovo ciclo di confronti all’interno della maggioranza e con l’opposizione, da cui forse a settembre emergerà il piano definitivo. Poi, come dire, bisognerà anche tradurlo in pratica.

Nel frattempo, però, la realtà di una crisi economica senza precedenti bussa alle porte, e il sospetto che il governo stia sostanzialmente prendendo tempo si fa sempre più forte. D’altra parte, la vera partita per il rilancio economico si gioca in altre sedi — in primis a Bruxelles, dove la forma definitiva che assumerà il recovery fund promesso dalla Commissione europea sarà la chiave per capire se ci sarà la possibilità di uscire dalla crisi applicando politiche espansive, o se ne usciremo indebitati fino al collo. Più di quanto già non siamo.